Colloquiale n°1 con Gian Paolo Guerini

Con questo articolo parte Colloquiale, l’intervista che seguirà la pubblicazione di ogni autore su  
f l o e m a. Prima di passare al botta e risposta vero e proprio, mi preme riportare una parte interessante di un messaggio privato che Gian Paolo Guerini mi ha spedito.

Chiedo aiuto a Nanni Cagnone che egregiamente chiarisce la differenza tra “poeta” e “letterato”:

«La poesia non chiede devozione, bensì disperato orgoglio; non perché l’innaturale questione dell’originalità sia decisiva (dopo tutto, non è che l’effetto di una tradizione interrotta e l’equivalente del copyright, del mercantile trade mark), ma perché manifestare devozione, e sostenere da principio la propria dipendenza, è da letterati, non da poeti (i primi potrebbero essere la versione amatoriale o impiegatizia dei secondi). Invece di scrivere, gli adoratori dovrebbero limitarsi a sospirare, talora commuoversi, e allestire nostalgiche merende in sale da tè, guardandosi dal debole orgoglio che sempre accarezza ifans, a cui tocca il privilegio di stravedere per il tale, avendolo o non avendolo sfiorato, avendolo probabilmente frainteso ma sapendo un bel po’ di cose su di lui, anche il nome della clinica in cui venne partorito e il colore dei fazzoletti da naso che tentarono arginare la commozione degli astanti.»

Se ti trovi d’accordo con Nanni Cagnone, perdona ancora se ho poco da spiegare, se non mi sento artista (hèlas, questo termine offre il destro a molti equivoci, e mi chiederebbe molto tempo per chiarirmi, o oscurarmi.. prendiamolo come termine di comodo per intenderci… forse il punto grave dell’arte è che ci sono molte persone che hanno delle idee a riguardo) né originale né rappresentativo del mio tempo.

The suggestions of the form_ GEOASTRAZIONE 3 – Roberto Calbucci, 2012
























1) La prima domanda che ti sottopongo è la domanda fissa che riproporremo ad ogni autore invitato su  f l o e m a, in modo da creare, se non una letteratura, una raccolta di idee e punti di vista sul tema della sperimentazione. Cosa significa per te scrittura sperimentale, scrittura di ricerca e avanguardia? E dove possiamo rinvenire queste declinazioni nella letteratura odierna?

Senza nessun intento polemico: non mi sono mai posto il problema di affrontare il significato della scrittura, non ho mai cercato di capirla, ma è solo entrata a far parte dell’esperienza della mia vita. D’altronde non leggo la letteratura odierna, ma rileggo solo pochissimi scrittori, in particolare i padri della chiesa cattolica e le vite dei santi. A una scrittura che ricerca, preferisco una che trovi, soprattutto oggetti sconosciuti.

2) Marco Giovenale parla di scritture “dopo il paradigma”, dove con paradigma -sintetizzo grossolanamente- ci si riferisce a tutto il portato letterario di ricerca del Novecento e afferma tra le altre cose: “È (o: sono persuaso possa essere) un contesto in cui il paradigma delle scritture, delle aperture ricettive, nei lettori, ma più ampiamente l’ambiente percettivo e dunque sociale non solo italiano ma mondiale che si è venuto a creare molto prima e subito dopo la rivoluzione digitale, è profondamente cambiato, radicalmente cambiato. Come se da un paradigma o visione/sentimento generale delle cose si fosse passati a qualcosa di irreversibilmente differente, difficilmente paragonabile a ciò che (e a come) eravamo.” (http://slowforward.wordpress.com/2012/09/29/riambientarsi-ma-anche-difendersi/)
Cosa pensi di questa posizione teorica?

Faccio fatica a seguire le teorie, ancor meno quelle sulla scrittura. Inoltre, non mi sono mai posto il problema di avere dei lettori. Credo piuttosto ad una situazione “cosmica” dell’arte, soprattutto quando ha la forza di andarsene altrove, da quello che chiunque possa intendere con arte. Preferisco l’abbandono, alla teoria.

3) Dove collocheresti la tua scrittura e qual è la sua funzione?

Vorrei semplicemente che sia (da Rilke): “divinamente «inservibile»”.

4) Puoi parlarci delle tecniche compositive dei tuoi testi e illustrarci qual è il percorso teorico che presiede alla tua scrittura? Giorgio Bonacini ha definito la tua parola infinitamente vasta, io aggiungerei che ci troviamo di fronte a una scrittura-Nastro-di-Möbius: un sistema di superfici non ordinario, perpetuo nel movimento, ma pur sempre organizzato in un sistema chiuso…

Cerco di liberare i testi dalla teoria e di lasciarla vagabondare beffarti ai confini della ragionevolezza. Ripeto: preferisco che abbiano a che fare con l’esperienza che non con la teoria. Ho il desiderio che i libri possano avere un percorso verticale (mi piacciono i vini “verticali”, quelli che si gustano lentamente, non come la maggior parte dei vini attuali che si gustano velocemente: ti ingannano, dopo 3 minuti è tutto finito!), che possano essere letti attraverso le pagine e non pagina dopo pagina. Ho l’impressione che solo così possano evidenziare la loro insensatezza.

5) Hai mai fatto uso delle tecniche del cut-up teorizzate da Brion Gysin? E conosci le teorie anagrammatiche di Gianpaolo Sasso?

Brion Gysin non l’ho mai letto e pochissimo William Burroughs, e ignoro completamente le teorie di Gianpaolo Sasso. Spero che possano aver utilizzato questa tecnica come uno dei tanti mezzi per liberare la scrittura da se stessa.

Gian Paolo Guerini davanti al Chelsea Hotel, NY, maggio 2011, foto di Claudia Steger

6) La scelta di Hölderlin, per le tue “Traduzioni da Hölderlin”  è stata dettata dalla passione che hai per l’autore o per la lingua tedesca?

No; non c’è stato un motivo preciso per Hölderlin. Avrebbe potuto essere un altro. Sicuramente non mi sarei avventurato in una lingua con la quale ho più dimestichezza, rispetto al tedesco.

7) Proseguirai questo ciclo di sperimentazioni su altri ceppi linguistici o dialettali?

Credo di no, almeno non in tempi brevi. Tutte le cose che ho fatto si sono indirizzate all’esigenza di liquidare una serie di epifanie, per le quali non sono riuscito ad applicare sempre la regola della dimenticanza. Credo che sia un modo per liquidare alcune ore della propria vita, per darsela a bere che la morte sia lontana…

8) Con questo tipo di rielaborazione è possibile creare un significato nuovo che esula completamente da quello originario, si svela un certo cripticismo che perde la sua oggettività divenendo pura soggettività, prestando il testo ad infinite ri-letture – connessioni terminologiche – e trasformando testi abietti in interessanti. Cosa puoi dirci su questo aspetto?

Non me la sento di parlare di “significato nuovo”, e neppure di qualcosa privo di significato (senza significato? insignificante?…). Solo qualcosa che faccia parte della mia e altrui esperienza.
Piuttosto il contrario: se il tentativo di assaporare una “pura oggettività” ha trovato riscontro nel lettore, per me è una delle più grandi conquiste. Credo di essere uno scrittore “pornografico”, almeno un po’, dove le parole possano parlare a se stesse senza sapersi, prive di soggettività. Nella “pornografia” non c’è significato: nel significato ce ne stiamo ancora aggrappati agli odori, alla maleodoranza, ci si crogiola nel tragico. Penso ad una “pornografia teologica”, dove però non ci sia più la puzza di dio.

9) Per quanto concerne questo aspetto del tuo lavoro potremmo parlare di “rilettura esoterica del testo?”

Certo, esoterica va bene. Religiosa. Alle elementari avevo moltissimo in religione e 5 in italiano!

10) Mi piacerebbe tu ci parlassi dell’esperienza di “Théâtre du Silence”, rivista e marchio che creasti nel 1980, della tua contemporanea attività di performer e musicista e dell’esperienza nel campo dell’editoria autoprodotta.

A ripensarci adesso, era solo un modo per trovare degli amici con interessi simili ai miei, Una sorta di “bocciofila poetica”. Curiosamente, ho ritrovato solo un paio di persone di quegli anni, e per poco tempo. Mi capitò di trovarmi a un pranzo di nozze, a Livorno, circa dieci anni fa, dove uno dei collaboratori della rivista “Téâtre du Silence”, al mio stesso tavolo, scoperto che ero di Bergamo, mi chiese se conoscevo Gian Paolo Guerini. Né io riconobbi lui, né lui me…
Non ho mai fatto differenza tra scrittura, performance e musica: ho sempre fatto le mie cose indipendentemente dal fatto di usare un suono o un sasso. Li metto vicini solo perché entrambi iniziano con la “s”. C’è sempre un collegamento (a volte sottile, s’intende) che lega le cose che faccio.
Riguardo alle autoproduzioni i
o ho fatto solo dei libretti per gli amici. Altri li fanno, e mettono il nome di un editore fittizio. Forse questo li aiuta ad essere più credibili. Cerco solo di fare un favore a me stesso, e lui, spesso, è anche ingrato!

11) Che parte hanno avuto nella tua produzione la mail art e la poesia visuale?

Praticate entrambe pochissimo. La poesia visuale praticamente mai. D’altronde, stiamo parlando della superficie delle cose: la profondità credo non stia nei mezzi usati.

12) E l’interesse per la teologia e per la filosofia quanto hanno direzionato la tua scrittura? Ti confesso che alcuni tuoi lavori mi hanno ricordato Lucio Saffaro.

Per anni ho abitato a Bologna in via Belle arti, di fronte alla casa di Lucio Saffaro, senza conoscerlo. Ho letto i suoi libri. Il “Trattato del modulo” è quello che preferisco. Mi ha mostrato una teoria che non ha aspetto teorico. Ho interesse solo per la teologia negativa: John Cage mi disse che per migliorare la musica bisognava partire da Meister Eckhart. Ho seguito il suo consiglio e mi sono trovato bene!

13) Inevitabile chiederti dei tre numi tutelari del tuo percorso artistico: Joyce, Duchamp, Cage; quanto hanno inciso sul tuo pensiero queste figure? Ci sono altre figure di riferimento nel tuo percorso?

Non so se abbiano inciso sulle cose che faccio. Credo comunque non in modo evidente. Posso solo dire gli autori che rileggo sempre: Antonin Artaud, James Joyce, Ezra Pound, Giorgio Manganelli. In Italia ho l’impressione che non ci sia nessun altro, oltre a Manganelli.

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Una risposta a “Colloquiale n°1 con Gian Paolo Guerini”

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