Falossi/Mastropasqua “La poesia della maschera”

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A distanza di circa un anno dall’uscita del libro “L’incanto della maschera – Origini e forme di una testa vuota”, Fernando Mastropasqua e Ferdinando Falossi presentano il secondo volume, “La poesia della maschera – Una testa vuota fonte di conoscenza.”

“La Poesia della Maschera” affronta il problema del linguaggio poetico della maschera stessa. Si entra nel dettaglio dei tre diversi generi del teatro greco del periodo classico: Commedia, Tragedia e Dramma Satiresco, e si vede come la tecnica costruttiva della maschera e le sue dinamiche vadano di pari passo con l’evoluzione del linguaggio teatrale.

Pagine: 344
Formato: 15×22 cm
Data di pubblicazione: 12-12-2015
Testi di: Ferdinando Falossi e Fernando Mastropasqua
Prezzo libro cartaceo: 30.00 €

Tra il primo e il secondo volume intanto è nato un sito dedicato a questo importante progetto dove è possibile trovare maggiori informazioni sui libri e sugli eventi: le vie della maschera,  e che vorrebbe diventare un luogo di discussione e di riflessione sulla maschera, con la possibilità di segnalare e avviare nuovi studi sul tema.

In occasione della presentazione di questo secondo volume a Pisa, il 19 aprile scorso presso il Teatro di Sant’Andrea, abbiamo intervistato i due autori. Di seguito troverete il video dell’intervista e alcune risposte scritte che per motivi di tempo non sarebbe stato possibile affrontare in loco.

1) Nei diversi tipi di Carnevale, Cournon, Skyros, Ptuj ad esempio, si nota un denominatore comune: il ribaltamento della realtà e l’avvicinarsi da parte di tutta la collettività, bambini compresi, ad elementi orrorifici che si confondono con elementi appartenenti al registro comico. Che nesso ha questo aspetto con la tragedia greca e quanto è importante la conservazione di questi riti sociali oggi?

Mastropasqua
È indubbio che tragedia e carnevale appartengono ambedue all’ambito dionisiaco. Anche se formalmente distanti hanno una comune origine nel mito e nei misteri più arcaici della cultura greca. Riso e terrore appaiono spesso intrecciati, quasi il primo potesse mitigare il secondo, oppure esserne addirittura la conseguenza. Ancora in era cristiana durante le rappresentazioni medievali il diavolo è raffigurato in forme mostruose che suscitano terrore, ma si rivelano inaspettatamente comiche. Ne sono testimonianza anche i diavoli danteschi. In molti carnevali, dalla Sicilia al Trentino,  queste figure continuano ad agire tale suprema contraddizione, che è all’origine della maschera come dimostra Falossi nel racconto del bubusettete. Forse l’umanità continuerà ad avere maschere e bubusettete – e sarebbe bene – ma contemplando il presente dispero che tali riti sociali avranno un futuro. I nostri nipoti più probabilmente tremeranno di paura e scoppieranno d’ilarità davanti a un computer in totale solitudine.

Falossi
Il riso, il pianto, la paura, così come la vertigine, la conoscenza, l’ebbrezza o la follia, fanno parte dei doni di Dioniso. Come ci raccontano ampiamente le Baccanti di Euripide, Dioniso, col suo Carro Navale, porta in dono alla Città la chance del rovescio del mondo, del Carnevale. Le Donne, il saggio e bambini si accostano spontaneamente a quella che Platone chiamava “follia giustamente orientata”. La vera tragedia che trasforma la festa in lutto arriva con il rifiuto della festa stessa. È il rifiuto in nome della serietà ad essere tragico, e il rifiuto del gioco e dell’ebbrezza in favore di una follia tutta negativa, fatta di armi e impregnata di violenta imbecillità è un’invenzione tutta maschile. Penso che dovremmo meditare molto di più sulle nostre attuali tragedie, che sembrano derivare tutte dalla nostra “serietà” e mai dai sani elementi orrorifici del Carnevale.

Maschera del Primo Nonno, di epoca menandrea. Da Lipari
Maschera del Primo Nonno, di epoca menandrea. Da Lipari

2) Perché dopo l’esperienza di Meneandro -che contribuì allo sviluppo della maschera comica nella commedia greca- c’è un’involuzione nelle capacità espressive della maschera?

Falossi
Lo specifico del linguaggio della maschera è la rigidità, con tutto ciò che essa porta con sé: lo spazio del volto è inteso come luogo dove si dispongono segni come quelli dell’età o del lutto, si veda il caso delle acconciature di Elettra o di Antigone, o i graffi sui volti delle Supplici, ma anche la cecità di Edipo o di Tiresia, o semplicemente le fauci del leone che incorniciano un volto assolutamente “normale” come quello di Eracle, rendendolo immediatamente riconoscibile. Non si tratta di espressione, ma di identificazione. L’espressione si raggiunge con altri mezzi, come la voce, il gesto, il movimento del corpo, il potere evocativo della parola. Solo una maschera che non abbia un’espressione determinata può essere in grado di produrre un’infinita serie di sfumature espressive. Questo non deve sembrare strano, perché in quel periodo, mi riferisco al VI, V secolo a.C, tutta l’arte plastica segue questa regola. L’Auriga di Delfi o l’Afrodite Sosandra o un’infinità di altre opere, hanno espressioni indefinite che oggi, sbagliando, definiremmo “neutre”; e qui mi viene in mente Jaques Lecoq, che usa da sempre la maschera neutra di Sartori per lavorare sull’espressione corporea. Non serve muovere tanto i lineamenti. Non serve aggrottare le sopracciglia o spalancare gli occhi. Forse è utile oggi, al cinema o in televisione, ma non in un teatro da 12.000 posti come quello di Epidauro! Ciò che si richiede invece alla maschera in un’epoca “intimista” come quella di Menandro è proprio questo: esprimere il sentimento, e non solo: esprimere il cambiamento, il ripensamento, la mutazione dell’animo. Le antiche figure del teatro avevano volti di spiriti, di antenati, di dèi; erano prima di tutto icone. I personaggi di Menandro escono spesso dal ruolo, fanno ciò che da loro non ci si aspetta: cambiano. Alle loro maschere si richiede di essere primi piani capaci di seguirli in tutte le loro evoluzioni. È qui che il linguaggio della rigidità si dimostra inadatto. Inoltre, anche in questo caso, la forma della maschera segue i criteri artistici della propria epoca, e quella di Menandro è l’epoca in cui l’espressione dei sentimenti fa il proprio ingresso trionfale nella pittura e nella scultura dei Greci. È in questo periodo che si cominciano a vedere le famose sopracciglia “alla Laocoonte”, cioè innalzate verso il centro della fronte per esprimere dolore. Ma l’espressione di un solo sentimento, per la maschera, è una trappola fatale. Menandro continuerà, nella propria epoca, ad essere rappresentato con le maschere, ma c’è ormai qualcosa che denuncia l’inadeguatezza di questo mezzo alle nuove esigenze di linguaggio. In poche parole il tipo si scontra con il personaggio.

3) Mito e anatomia nell’epoca del teatro greco: in che misura hanno influenzato la costruzione delle maschere?

Falossi
L’anatomia della maschera, come quella della scultura in generale, è dettata direttamente dal mito; e il mito non descrive ciò che è inessenziale, o particolare, ma solo ciò che è essenziale. In esso non c’è nulla che non sia funzionale alla comunicazione del mito stesso e del suo complesso metaforico. Questo criterio produce obbligatoriamente dei volti ideali, sia nella tragedia che nella commedia; ideali perché la loro anatomia deriva da un ideale, da un archetipo. Voglio dire, per esempio, che la zoppìa di Edipo o la cecità di Tiresia sono segni che servono a raccontare la storia di queste due figure, né più né meno come la loro età, e non sono mai dati anagrafici incidentali. Edipo non ha i  “piedi gonfi” per una semplice, casuale, e quindi particolare, malformazione. I suoi piedi raccontano ciò che gli fu fatto da neonato e sono funzionali al compimento del suo destino. Sono una metafora, non una fotografia. Se quei piedi non avessero avuto un legame profondo con tutto il mito di Edipo, la menzione della loro deformità non avrebbe mai potuto trovare posto né nella diffusione orale del mito, né nella interpretazione poetica che di quel mito compie Sofocle. Questo vale sempre, in epoca classica, per l’anatomia di ogni maschera, sia tragica che comica. Il mito non descrive la fisionomia se non quando è necessario farlo perché il dato è funzionale al racconto. In caso contrario la descrizione del volto è assente, e allora si deve immaginare (e costruire) un volto che abbia “gli” occhi, “il” naso e  “la” bocca fatti come il canone dell’epoca prevede che siano fatti.

4) Proporzioni fra testa e maschera nel teatro greco.

Il quadrato inalterabile che consente la parola e la visione in una maschera che deve vedere, respirare, parlare
Il quadrato inalterabile che consente la parola e la visione in una maschera che deve vedere, respirare, parlare

Falossi
Le forme e le dimensioni che può assumere una maschera sono infinite e dipendono solo dal modo attraverso il quale una comunità umana immagina, cioè dà immagine, ai propri dèi, ai propri spiriti, ai propri antenati. Così, quando il dio che ci si figura non è pensato a immagine e somiglianza dell’uomo, nascono maschere alte quanto un palazzo di tre piani che compiono azioni che non hanno nulla di umano e che danzano producendo suoni privi di parola.  La maschera del teatro greco è prima di tutto una testa umana parlante. Ciò di cui essa si fa strumento di espressione, che sia il dolore tragico di Antigone o la esilarante utopia di Diceòpoli, è squisitamente umano. Questo è ciò che determina la sua forma: una testa che deve contenere un’altra testa, quella dell’indossatore, senza alterare le proporzioni generali del corpo dell’attore; una cosa alla quale il greco del v secolo a.C. è particolarmente sensibile. Con una maschera sul viso un attore deve: vedere bene, respirare bene, parlare bene, muoversi bene anche durante una danza. Il progetto ha intenti molto semplici la cui realizzazione, tuttavia, presenta una notevole complessità. Una buona testa parlante deve aderire al cranio, alla fronte e alle tempie dell’attore; deve veder coincidere il centro dei propri occhi con le pupille dell’attore, appoggiare bene sul suo naso, ma non aderire né al mento né alle guance, anzi deve lasciar libera la mandibola dell’attore di muoversi al suo interno articolando parole in tutta libertà, se necessario urlando, ridendo o piangendo. Questo porta a un allungamento della parte inferiore della maschera che corrisponde esattamente alla misura della bocca spalancata dell’attore. La stessa misura si distribuisce in modo uniforme sulle due metà della larghezza della maschera. Ciò crea una sproporzione tra cranio e guance che viene ridotta e annullata mediante i volumi delle barbe o delle acconciature. Questa la proporzione tra testa dell’indossatore e la maschera nel periodo classico; nei periodi successivi assistiamo ad un ingrandimento vertiginoso della maschera che rimane a tutt’oggi abbastanza misterioso e che è dovuto probabilmente a un profondo cambiamento nell’architettura del teatro.

Papposileno dal Cratere di Pronomos. Esperimento di ricostruzione in cuoio (1982)
Papposileno dal Cratere di Pronomos. Esperimento di ricostruzione in cuoio (1982)

5) “Mi sento sempre come qualcuno che si spoglia lentamente prima di andare a letto”. Carmelo Bene disse questo di sé, alludeva forse al fatto di essere schiavo delle sue maschere?

Mastropasqua
Non conosco il contesto in cui Carmelo Bene abbia pronunciato questa frase, ma credo che si possa interpretare così. Maschere certo, ma che sono anche incubi notturni, abissi onirici. Lo spogliarsi nel suo teatro ha molte valenze, ricordiamo per esempio l’avvolgersi e svolgersi in lunghi bendaggi dal Don Chisciotte con Leo de Berardinis al Macbeth con Susanna Iavicoli. E come dimenticare l’angoscioso lentissimo spellamento nel finale della Salomé? Essere spellato, spogliato oltre la nudità, privato di quella pellicola sottile, che è ultima difesa allo sgretolarsi del corpo, come accade al manichino in pezzi del Riccardo III che una pietosa madonna cerca invano di rimettere insieme. Spogliarsi significa anche mostrare l’orrore ossimorico di essere in quanto ‘mancanza’. Pensiamo a Otello o la deficienza della donna, che tante ire gli procurò da parte delle femministe. Eppure non era un insulto, ma la dichiarazione, lacaniana, dell’impossibilità d’amare, l’impossibilità a tenere tra le braccia un corpo femminile, come esplicita nei suoi molteplici e vani tentativi anche nel Riccardo III. Se una definizione si può dare del teatro di Carmelo Bene è appunto quella di ‘teatro della mancanza’.

6) In che modo Eduardo de Filippo ha influenzato l’arte di bene? In quali rapporti erano i due artisti?

Mastropasqua
Indubbiamente Carmelo Bene stimava molto Eduardo, tanto è vero che fecero insieme un memorabile spettacolo di poesia. Non direi invece che ci sia stata in Bene una eredità eduardiana. Piuttosto penso che sia rimasto affascinato dalla recitazione di Memo Benassi. Chi abbia avuto modo di vedere qualche registrazione degli spettacoli di questo attore sarà rimasto colpito dalle ‘strane’ interpretazioni di Benassi. Non ‘dialoga’ mai con gli altri attori in scena, anche nei superdialoganti e superdialettici testi pirandelliani. Costruisce un  ‘a solo’ incantatore che dura per tutto lo spettacolo, interrotto ogni tanto dalle battute degli altri. Credo che questo tipo di recitazione abbia ispirato a Bene la poetica del monologo. Quando il dialogo è assolutamente necessario come nella scena in cui Orazio informa Amleto della presenza del fantasma del padre, Bene lo trasforma in un duetto musicale come nell’opera lirica. Certo avrà ammirato il rigore della costruzione formale dei personaggi in Eduardo, ma quel realismo implacabile è molto lontano dalla recitazione di Bene, dal suo delirio in scena. La sua invocazione: ‘liberate Eduardo da Einaudi’ forse era un modo per dire che amava di più Eduardo come interprete delle commedie di Scarpetta, come realizzatore della maschera di Felice Sciosciammocca inventata dal padre.

 

 

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Ferdinando Falossi è uno studioso della maschera. Laureato in storia del teatro e dello spettacolo con una tesi sulla maschera greca, ha collaborato all’insegnamento di Storia del Teatro dell’Università di Pisa. Allievo di Donato Sartori, per quanto riguarda la maschera della Commedia dell’Arte, è costruttore di maschere, sia in cuoio che in altri materiali, e da molti anni conduce una ricerca specifica sulla morfologia e la tecnologia della maschera del teatro greco classico.
Ha condotto laboratori e realizzato maschere per numerose compagnie teatrali e scuole di teatro tra le quali Zingaro, Footsbarn Travelling Theatre, La Bottega del Teatro di V. Gassman, La Città del Teatro, e, recentemente, per lo spettacolo Esse-dice di Gipi-Sacchi di Sabbia.
Lavora oggi come educatore presso la Cooperativa Sociale C.RE.A di Viareggio. Qui ha realizzato diversi “spettacoli” all’interno delle strutture per il disagio giovanile, la disabilità e la salute mentale, e li ha documentati in video.
Tra le sue pubblicazioni L’erma dal ventre rigonfio. Morfologia della maschera comica, Roma, ETL, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari, 1989 e Gorgòneion: la forma dell’oxymoron in AA.VV., Maschera Labirinto, Roma, ETL, 1991.
È autore, insieme a Fernando Mastropasqua, de L’Incanto della Maschera. Origini e forme di una testa vuota, Torino, Prinp, 2014.
Tra i suoi video, Amleto, Viareggio, C.RE.A, 2001; Totem, Viareggio, C.RE.A, 2005, Totem II, Viareggio, C.RE.A, 2009; Cartamusica, Viareggio, CREA, 2013; Neverendingpainting, Viareggio, C.RE.A, 2015.

 

Fernando Mastropasqua, già professore di Storia del Teatro presso le Università di Pisa, Trento e Torino, si è occupato di feste, di maschere antiche, di carnevali, di regia.
Le sue più recenti pubblicazioni sono: Komos, il riso di Dioniso: Maschera e Sapienza, Roma, ETL, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari, 1989; Metamorfosi del teatro, Napoli, ESI, 1998; In cammino verso Amleto (Craig e Shakespeare), Pisa, BFS, 2000; Teatro provincia dell’uomo, Livorno, Frediani, 2004; La scena rituale, Roma, Carocci, 2007; collabora alla rivista “Critica d’Arte”.
È autore con Ferdinando Falossi dell’Incanto della Maschera. Origini e forme di una testa vuota, Torino, Prinp Editore, 2014.

 

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