Falossi/Mastropasqua “La poesia della maschera”

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A distanza di circa un anno dall’uscita del libro “L’incanto della maschera – Origini e forme di una testa vuota”, Fernando Mastropasqua e Ferdinando Falossi presentano il secondo volume, “La poesia della maschera – Una testa vuota fonte di conoscenza.”

“La Poesia della Maschera” affronta il problema del linguaggio poetico della maschera stessa. Si entra nel dettaglio dei tre diversi generi del teatro greco del periodo classico: Commedia, Tragedia e Dramma Satiresco, e si vede come la tecnica costruttiva della maschera e le sue dinamiche vadano di pari passo con l’evoluzione del linguaggio teatrale.

Pagine: 344
Formato: 15×22 cm
Data di pubblicazione: 12-12-2015
Testi di: Ferdinando Falossi e Fernando Mastropasqua
Prezzo libro cartaceo: 30.00 €

Tra il primo e il secondo volume intanto è nato un sito dedicato a questo importante progetto dove è possibile trovare maggiori informazioni sui libri e sugli eventi: le vie della maschera,  e che vorrebbe diventare un luogo di discussione e di riflessione sulla maschera, con la possibilità di segnalare e avviare nuovi studi sul tema.

In occasione della presentazione di questo secondo volume a Pisa, il 19 aprile scorso presso il Teatro di Sant’Andrea, abbiamo intervistato i due autori. Di seguito troverete il video dell’intervista e alcune risposte scritte che per motivi di tempo non sarebbe stato possibile affrontare in loco.

1) Nei diversi tipi di Carnevale, Cournon, Skyros, Ptuj ad esempio, si nota un denominatore comune: il ribaltamento della realtà e l’avvicinarsi da parte di tutta la collettività, bambini compresi, ad elementi orrorifici che si confondono con elementi appartenenti al registro comico. Che nesso ha questo aspetto con la tragedia greca e quanto è importante la conservazione di questi riti sociali oggi?

Mastropasqua
È indubbio che tragedia e carnevale appartengono ambedue all’ambito dionisiaco. Anche se formalmente distanti hanno una comune origine nel mito e nei misteri più arcaici della cultura greca. Riso e terrore appaiono spesso intrecciati, quasi il primo potesse mitigare il secondo, oppure esserne addirittura la conseguenza. Ancora in era cristiana durante le rappresentazioni medievali il diavolo è raffigurato in forme mostruose che suscitano terrore, ma si rivelano inaspettatamente comiche. Ne sono testimonianza anche i diavoli danteschi. In molti carnevali, dalla Sicilia al Trentino,  queste figure continuano ad agire tale suprema contraddizione, che è all’origine della maschera come dimostra Falossi nel racconto del bubusettete. Forse l’umanità continuerà ad avere maschere e bubusettete – e sarebbe bene – ma contemplando il presente dispero che tali riti sociali avranno un futuro. I nostri nipoti più probabilmente tremeranno di paura e scoppieranno d’ilarità davanti a un computer in totale solitudine.

Falossi
Il riso, il pianto, la paura, così come la vertigine, la conoscenza, l’ebbrezza o la follia, fanno parte dei doni di Dioniso. Come ci raccontano ampiamente le Baccanti di Euripide, Dioniso, col suo Carro Navale, porta in dono alla Città la chance del rovescio del mondo, del Carnevale. Le Donne, il saggio e bambini si accostano spontaneamente a quella che Platone chiamava “follia giustamente orientata”. La vera tragedia che trasforma la festa in lutto arriva con il rifiuto della festa stessa. È il rifiuto in nome della serietà ad essere tragico, e il rifiuto del gioco e dell’ebbrezza in favore di una follia tutta negativa, fatta di armi e impregnata di violenta imbecillità è un’invenzione tutta maschile. Penso che dovremmo meditare molto di più sulle nostre attuali tragedie, che sembrano derivare tutte dalla nostra “serietà” e mai dai sani elementi orrorifici del Carnevale.

Maschera del Primo Nonno, di epoca menandrea. Da Lipari

Maschera del Primo Nonno, di epoca menandrea. Da Lipari

2) Perché dopo l’esperienza di Meneandro -che contribuì allo sviluppo della maschera comica nella commedia greca- c’è un’involuzione nelle capacità espressive della maschera?

Falossi
Lo specifico del linguaggio della maschera è la rigidità, con tutto ciò che essa porta con sé: lo spazio del volto è inteso come luogo dove si dispongono segni come quelli dell’età o del lutto, si veda il caso delle acconciature di Elettra o di Antigone, o i graffi sui volti delle Supplici, ma anche la cecità di Edipo o di Tiresia, o semplicemente le fauci del leone che incorniciano un volto assolutamente “normale” come quello di Eracle, rendendolo immediatamente riconoscibile. Non si tratta di espressione, ma di identificazione. L’espressione si raggiunge con altri mezzi, come la voce, il gesto, il movimento del corpo, il potere evocativo della parola. Solo una maschera che non abbia un’espressione determinata può essere in grado di produrre un’infinita serie di sfumature espressive. Questo non deve sembrare strano, perché in quel periodo, mi riferisco al VI, V secolo a.C, tutta l’arte plastica segue questa regola. L’Auriga di Delfi o l’Afrodite Sosandra o un’infinità di altre opere, hanno espressioni indefinite che oggi, sbagliando, definiremmo “neutre”; e qui mi viene in mente Jaques Lecoq, che usa da sempre la maschera neutra di Sartori per lavorare sull’espressione corporea. Non serve muovere tanto i lineamenti. Non serve aggrottare le sopracciglia o spalancare gli occhi. Forse è utile oggi, al cinema o in televisione, ma non in un teatro da 12.000 posti come quello di Epidauro! Ciò che si richiede invece alla maschera in un’epoca “intimista” come quella di Menandro è proprio questo: esprimere il sentimento, e non solo: esprimere il cambiamento, il ripensamento, la mutazione dell’animo. Le antiche figure del teatro avevano volti di spiriti, di antenati, di dèi; erano prima di tutto icone. I personaggi di Menandro escono spesso dal ruolo, fanno ciò che da loro non ci si aspetta: cambiano. Alle loro maschere si richiede di essere primi piani capaci di seguirli in tutte le loro evoluzioni. È qui che il linguaggio della rigidità si dimostra inadatto. Inoltre, anche in questo caso, la forma della maschera segue i criteri artistici della propria epoca, e quella di Menandro è l’epoca in cui l’espressione dei sentimenti fa il proprio ingresso trionfale nella pittura e nella scultura dei Greci. È in questo periodo che si cominciano a vedere le famose sopracciglia “alla Laocoonte”, cioè innalzate verso il centro della fronte per esprimere dolore. Ma l’espressione di un solo sentimento, per la maschera, è una trappola fatale. Menandro continuerà, nella propria epoca, ad essere rappresentato con le maschere, ma c’è ormai qualcosa che denuncia l’inadeguatezza di questo mezzo alle nuove esigenze di linguaggio. In poche parole il tipo si scontra con il personaggio.

3) Mito e anatomia nell’epoca del teatro greco: in che misura hanno influenzato la costruzione delle maschere?

Falossi
L’anatomia della maschera, come quella della scultura in generale, è dettata direttamente dal mito; e il mito non descrive ciò che è inessenziale, o particolare, ma solo ciò che è essenziale. In esso non c’è nulla che non sia funzionale alla comunicazione del mito stesso e del suo complesso metaforico. Questo criterio produce obbligatoriamente dei volti ideali, sia nella tragedia che nella commedia; ideali perché la loro anatomia deriva da un ideale, da un archetipo. Voglio dire, per esempio, che la zoppìa di Edipo o la cecità di Tiresia sono segni che servono a raccontare la storia di queste due figure, né più né meno come la loro età, e non sono mai dati anagrafici incidentali. Edipo non ha i  “piedi gonfi” per una semplice, casuale, e quindi particolare, malformazione. I suoi piedi raccontano ciò che gli fu fatto da neonato e sono funzionali al compimento del suo destino. Sono una metafora, non una fotografia. Se quei piedi non avessero avuto un legame profondo con tutto il mito di Edipo, la menzione della loro deformità non avrebbe mai potuto trovare posto né nella diffusione orale del mito, né nella interpretazione poetica che di quel mito compie Sofocle. Questo vale sempre, in epoca classica, per l’anatomia di ogni maschera, sia tragica che comica. Il mito non descrive la fisionomia se non quando è necessario farlo perché il dato è funzionale al racconto. In caso contrario la descrizione del volto è assente, e allora si deve immaginare (e costruire) un volto che abbia “gli” occhi, “il” naso e  “la” bocca fatti come il canone dell’epoca prevede che siano fatti.

4) Proporzioni fra testa e maschera nel teatro greco.

Il quadrato inalterabile che consente la parola e la visione in una maschera che deve vedere, respirare, parlare

Il quadrato inalterabile che consente la parola e la visione in una maschera che deve vedere, respirare, parlare

Falossi
Le forme e le dimensioni che può assumere una maschera sono infinite e dipendono solo dal modo attraverso il quale una comunità umana immagina, cioè dà immagine, ai propri dèi, ai propri spiriti, ai propri antenati. Così, quando il dio che ci si figura non è pensato a immagine e somiglianza dell’uomo, nascono maschere alte quanto un palazzo di tre piani che compiono azioni che non hanno nulla di umano e che danzano producendo suoni privi di parola.  La maschera del teatro greco è prima di tutto una testa umana parlante. Ciò di cui essa si fa strumento di espressione, che sia il dolore tragico di Antigone o la esilarante utopia di Diceòpoli, è squisitamente umano. Questo è ciò che determina la sua forma: una testa che deve contenere un’altra testa, quella dell’indossatore, senza alterare le proporzioni generali del corpo dell’attore; una cosa alla quale il greco del v secolo a.C. è particolarmente sensibile. Con una maschera sul viso un attore deve: vedere bene, respirare bene, parlare bene, muoversi bene anche durante una danza. Il progetto ha intenti molto semplici la cui realizzazione, tuttavia, presenta una notevole complessità. Una buona testa parlante deve aderire al cranio, alla fronte e alle tempie dell’attore; deve veder coincidere il centro dei propri occhi con le pupille dell’attore, appoggiare bene sul suo naso, ma non aderire né al mento né alle guance, anzi deve lasciar libera la mandibola dell’attore di muoversi al suo interno articolando parole in tutta libertà, se necessario urlando, ridendo o piangendo. Questo porta a un allungamento della parte inferiore della maschera che corrisponde esattamente alla misura della bocca spalancata dell’attore. La stessa misura si distribuisce in modo uniforme sulle due metà della larghezza della maschera. Ciò crea una sproporzione tra cranio e guance che viene ridotta e annullata mediante i volumi delle barbe o delle acconciature. Questa la proporzione tra testa dell’indossatore e la maschera nel periodo classico; nei periodi successivi assistiamo ad un ingrandimento vertiginoso della maschera che rimane a tutt’oggi abbastanza misterioso e che è dovuto probabilmente a un profondo cambiamento nell’architettura del teatro.

Papposileno dal Cratere di Pronomos. Esperimento di ricostruzione in cuoio (1982)

Papposileno dal Cratere di Pronomos. Esperimento di ricostruzione in cuoio (1982)

5) “Mi sento sempre come qualcuno che si spoglia lentamente prima di andare a letto”. Carmelo Bene disse questo di sé, alludeva forse al fatto di essere schiavo delle sue maschere?

Mastropasqua
Non conosco il contesto in cui Carmelo Bene abbia pronunciato questa frase, ma credo che si possa interpretare così. Maschere certo, ma che sono anche incubi notturni, abissi onirici. Lo spogliarsi nel suo teatro ha molte valenze, ricordiamo per esempio l’avvolgersi e svolgersi in lunghi bendaggi dal Don Chisciotte con Leo de Berardinis al Macbeth con Susanna Iavicoli. E come dimenticare l’angoscioso lentissimo spellamento nel finale della Salomé? Essere spellato, spogliato oltre la nudità, privato di quella pellicola sottile, che è ultima difesa allo sgretolarsi del corpo, come accade al manichino in pezzi del Riccardo III che una pietosa madonna cerca invano di rimettere insieme. Spogliarsi significa anche mostrare l’orrore ossimorico di essere in quanto ‘mancanza’. Pensiamo a Otello o la deficienza della donna, che tante ire gli procurò da parte delle femministe. Eppure non era un insulto, ma la dichiarazione, lacaniana, dell’impossibilità d’amare, l’impossibilità a tenere tra le braccia un corpo femminile, come esplicita nei suoi molteplici e vani tentativi anche nel Riccardo III. Se una definizione si può dare del teatro di Carmelo Bene è appunto quella di ‘teatro della mancanza’.

6) In che modo Eduardo de Filippo ha influenzato l’arte di bene? In quali rapporti erano i due artisti?

Mastropasqua
Indubbiamente Carmelo Bene stimava molto Eduardo, tanto è vero che fecero insieme un memorabile spettacolo di poesia. Non direi invece che ci sia stata in Bene una eredità eduardiana. Piuttosto penso che sia rimasto affascinato dalla recitazione di Memo Benassi. Chi abbia avuto modo di vedere qualche registrazione degli spettacoli di questo attore sarà rimasto colpito dalle ‘strane’ interpretazioni di Benassi. Non ‘dialoga’ mai con gli altri attori in scena, anche nei superdialoganti e superdialettici testi pirandelliani. Costruisce un  ‘a solo’ incantatore che dura per tutto lo spettacolo, interrotto ogni tanto dalle battute degli altri. Credo che questo tipo di recitazione abbia ispirato a Bene la poetica del monologo. Quando il dialogo è assolutamente necessario come nella scena in cui Orazio informa Amleto della presenza del fantasma del padre, Bene lo trasforma in un duetto musicale come nell’opera lirica. Certo avrà ammirato il rigore della costruzione formale dei personaggi in Eduardo, ma quel realismo implacabile è molto lontano dalla recitazione di Bene, dal suo delirio in scena. La sua invocazione: ‘liberate Eduardo da Einaudi’ forse era un modo per dire che amava di più Eduardo come interprete delle commedie di Scarpetta, come realizzatore della maschera di Felice Sciosciammocca inventata dal padre.

 

 

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Ferdinando Falossi è uno studioso della maschera. Laureato in storia del teatro e dello spettacolo con una tesi sulla maschera greca, ha collaborato all’insegnamento di Storia del Teatro dell’Università di Pisa. Allievo di Donato Sartori, per quanto riguarda la maschera della Commedia dell’Arte, è costruttore di maschere, sia in cuoio che in altri materiali, e da molti anni conduce una ricerca specifica sulla morfologia e la tecnologia della maschera del teatro greco classico.
Ha condotto laboratori e realizzato maschere per numerose compagnie teatrali e scuole di teatro tra le quali Zingaro, Footsbarn Travelling Theatre, La Bottega del Teatro di V. Gassman, La Città del Teatro, e, recentemente, per lo spettacolo Esse-dice di Gipi-Sacchi di Sabbia.
Lavora oggi come educatore presso la Cooperativa Sociale C.RE.A di Viareggio. Qui ha realizzato diversi “spettacoli” all’interno delle strutture per il disagio giovanile, la disabilità e la salute mentale, e li ha documentati in video.
Tra le sue pubblicazioni L’erma dal ventre rigonfio. Morfologia della maschera comica, Roma, ETL, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari, 1989 e Gorgòneion: la forma dell’oxymoron in AA.VV., Maschera Labirinto, Roma, ETL, 1991.
È autore, insieme a Fernando Mastropasqua, de L’Incanto della Maschera. Origini e forme di una testa vuota, Torino, Prinp, 2014.
Tra i suoi video, Amleto, Viareggio, C.RE.A, 2001; Totem, Viareggio, C.RE.A, 2005, Totem II, Viareggio, C.RE.A, 2009; Cartamusica, Viareggio, CREA, 2013; Neverendingpainting, Viareggio, C.RE.A, 2015.

 

Fernando Mastropasqua, già professore di Storia del Teatro presso le Università di Pisa, Trento e Torino, si è occupato di feste, di maschere antiche, di carnevali, di regia.
Le sue più recenti pubblicazioni sono: Komos, il riso di Dioniso: Maschera e Sapienza, Roma, ETL, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari, 1989; Metamorfosi del teatro, Napoli, ESI, 1998; In cammino verso Amleto (Craig e Shakespeare), Pisa, BFS, 2000; Teatro provincia dell’uomo, Livorno, Frediani, 2004; La scena rituale, Roma, Carocci, 2007; collabora alla rivista “Critica d’Arte”.
È autore con Ferdinando Falossi dell’Incanto della Maschera. Origini e forme di una testa vuota, Torino, Prinp Editore, 2014.

 

Falossi/Mastropasqua “L’incanto della maschera”

 

Maschera di Capo dei Servi della Commedia Antica, da statuetta fittile del Museo del Louvre. (Lino stuccato e pelliccia di capra) - di F. Falossi

Maschera di Capo dei Servi della Commedia Antica, da statuetta fittile del Museo del Louvre. (Lino stuccato e pelliccia di capra) – di F. Falossi

 

È uscito da pochi mesi, per le Edizioni PRINP,  il libro “L’incanto della maschera – origini e forme di una testa vuota” di Ferdinando Falossi e Fernando Mastropasqua.
Si tratta di uno studio importantissimo sul dispositivo maschera che parte dai greci per arrivare ai giorni nostri. Ci sembra di poter dire (limitatamente alle nostre conoscenze e ricerche) che un lavoro così articolato appaia per la prima volta in una pubblicazione italiana. In effetti l’opera completa sarà composta da due volumi e questo è quanto ci riferisce telegraficamente Falossi sulle due parti: “Se il primo volume considera l’incanto della maschera, cioè la sua origine legata alla magia, al rito, al mondo degli antenati e degli spiriti, insomma, il suo essere icona indossabile, il secondo volume parlerà della poetica della maschera, ovvero del suo diventare linguaggio espressivo in teatro, e in particolare in quel teatro che si situa alle origini della nostra cultura, cioè il teatro greco. Infatti  esaminerò la maschera nelle sue differenziazioni e nella sua evoluzione all’interno dei tre generi teatrali, Tragedia, Commedia Antica, Commedia  Nuova e Dramma Satiresco. Un intero, consistente capitolo sarà dedicato alla ricostruzione, per quanto possibile filologica, della maschera greca, con analisi dei colori, dei materiali e degli stucchi.”

Maschera della strega Rangda. Spettacolo Barong di Batubulan (Bali, Indonesia)

Maschera della strega Rangda. Spettacolo Barong di Batubulan (Bali, Indonesia)

Dovunque l'apparire della maschera desta inquietudine e contrastanti sensi di smarrimento, stupore, ammirazione. È l'incanto che i Greci chiamavano thauma, parola che caratterizzava l'inesprimibile, l'inaudito, parola che annunciava un luogo di meraviglie, fascinazione, malìa, e anche, per il Padre Gregorio di Nazianzo, il compiersi del miracolo cristiano. La maschera è il simbolo più antico e universale della coscienza della finitezza umana ('meglio non essere nati'), per questo essa ricopre di una corteccia 'immortale' il corpo deperibile dell'uomo, come le maschere funerarie d'oro celavano il volto in decomposizione del morto; ed è anche la prima perfetta realizzazione di 'macchina del tempo': infilarsi dentro una maschera trascende l'io, lo spazio e il tempo. Tra le infinite varietà di forme sono qui raccolti alcuni dei suoi molti incanti: dai culti arcaici e dai riti ancestrali fino ai miti della cultura classica, dalle epifanie nel folklore europeo fino ai fantasmi circensi. La perdita di aura nella società moderna costringe la maschera in spazi inusuali e a profonde degenerazioni. Tuttavia la sua presenza in molti carnevali risparmiati dalla mercificazione turistica e nella pratica scenica più attenta alla sperimentazione, sulle orme di Craig, Mejerchold, Brecht, non meno che nelle piazze 'indignate' o nelle foreste del Chiapas insorgente, rende ancora attuale l'invocazione del Mercuzio shakespeariano: "Datemi una custodia per metterci dentro la faccia! Una faccia su una faccia".


RICONGIUNGIMENTI – L’incanto della maschera

di Walt G. Catalano

 

La fissità viene definita come “l’essere fisso, fermo, detto soprattutto dello sguardo o del pensiero” (Vocabolario Treccani). Un’espressione facciale che esprime uno stato d’animo, nell’attimo in cui si palesa va ad amplificarsi in quella che viene recepita dall’altro come primordio assoluto della comunicazione. Comunicare attraverso le espressioni del volto è un atto antecedente al linguaggio, che rappresenta nella sua mutevolezza la modalità più semplice di recepire l’altro da sé.
Facciamo questa premessa perché “L’incanto della maschera, origini e forme di una testa vuota” è un libro che parla di comunicazione e della potenza dell’espressività umana. La maschera nella sua fissità stabilisce ed evoca le espressioni somatiche contribuendo non solo a rendere il volto qualcos’altro, ma mutando radicalmente il comportamento di chi la indossa riconducendolo in un mondo di antiche pulsioni (come nel caso dello sciamano), o calandolo in un personaggio diverso dalla persona, come nel caso del lavoro attoriale. Questo accade in una relazione di scambio biunivoco tra faccia/corpo (modalità) e maschera, tale che la staticità della maschera viene ad assumere tutte le valenze dell’umana o ferina fisionomia. In un’unica sagoma un universo di opposti che scaturiscono in lampi di puro inconscio da decriptare. L’indossamento della maschera ricongiunge il corpo alla mente attraverso meccanismi subcoscienti che mutano il modo di rapportarsi con se stessi e con gli interlocutori, creando una serie di risposte che non sarebbero possibili nel contesto della normale comunicazione fra individui.  
Il libro si presenta come un un caldo ed avvolgente piano-sequenza sokuroviano (ci riferiamo in particolare al film”Arca russa”): dalla copertina in cui dallo sfondo nero spiccano i colori della Maschera Kwakiutl (Becco ritorto del cielo), il lettore viene proiettato in un percorso che attraversa le epoche e le culture, risvegliando  strati profondi della memoria collettiva.
Il primo capitolo affronta lo sciamanesimo: lo sciamano che diviene guaritore, ponte con il regno dei morti ed essenziale contatto con la cosmogonia. Il viaggio continua nel XII secolo a.C. con la maschera gorgonica Greca, madre di tutte le maschere che difende dagli inferi e impedisce la contaminazione fra i due mondi: “L’altro mondo resiste così alla profanazione dell’umano con la riaffermazione del non umano come valore primordiale”. Nel terzo capitolo ci troviamo nella Grecia del V secolo a.C. con l’immaginario dionisiaco e la figura del satiro che coincide con “l’immagine che l’uomo greco si prefigura della pienezza dell’essere, concretizzata in un’epoca metastorica in cui vita, natura, divinità, non sono in lotta fra loro”, dunque il satiro è uomo dionisiaco ma lo è anche lo spettatore. Il Pittore di Pronomos è un punto fondamentale del quarto capitolo, dove viene esaminata la ceramica del grande cratere a volute di Napoli, che vede i vari protagonisti interagire con diverse maschere. Il quinto capitolo è dedicato a un’analisi delle maschere da circo, circonferenza magica che rafforza i legami fra attori e spettatori, partendo dai greci per arrivare alla storia contemporanea. “Maschera e Tempo” chiude il volume partendo dall’analisi del rito dei danzatori Warimé, della popolazione venezuelana Piaroa, per suggerire come la maschera riesca a sottrarre l’essere dal tempo.

Questa opera rappresenta molto di più di un semplice manuale, possiamo ricavare in ogni pagina tracce di etologia, antropologia, analisi dei miti e elementi di natura psicodinamica come il transfert, la deindividuazione e l’inconscio collettivo, anche se non vuole essere un libro di ascendenza junghiana, né tantomeno si vogliono affrontare direttamente elementi di natura psicodinamica che comunque ogni lettore potrà decidere o meno di prendere in considerazione. E’ uno spazio nel quale possiamo muoverci liberamente, senza vincoli di inizio e fine scoprendo poi alla conclusione, come nel film di Sokurov, che viviamo sospesi su un mare sconfinato di simboli. Ci troviamo dunque di fronte all’opera più completa sulla storia della maschera nel teatro, almeno per quanto riguarda la letteratura in Italia e ricordiamo che il progetto comprenderà due volumi, il secondo dei quali uscirà nel corso dell’anno a venire.

 

 

INTERVISTA a Ferdinando Falossi
a cura di Walt G. Catalano

 

1)    “L’incanto della maschera – origini e forme di una testa vuota”: una gestazione durata dieci anni, ci può parlare della genesi e delle esigenze che hanno portato a questa opera?
In effetti la gestazione è durata anche il doppio. L’incontro con la maschera, poi, risale addirittura al 1976, in particolare a un seminario sulla maschera della Commedia dell’Arte condotto da Donato Sartori e organizzato dal Centro per la Sperimentazione e la Ricerca Teatrale di Pontedera. Erano gli anni in cui Pontedera era davvero l’ombelico del mondo per i giovani che approdavano al teatro e volevano andare oltre quello che chiamavamo “tradizione”, o “accademia”. Io, che venivo da una realtà di paese della provincia di Livorno, ho potuto “vedere”, ma anche lavorare, avere contatto, non solo con colossi come Jerzy Grotowski, Eugenio Barba, o Julian Beck, ma anche e soprattutto con una galassia di realtà che si situavano ai confini del teatro inteso in maniera tradizionale, realtà che avevano ancora i piedi nel rito, nella religione, nel folclore, mentre la testa si affacciava su un  linguaggio laico e teatrale. Teatro eskimese, balinese, greco-turco, teatro di figura, con nomi come Obrazov, Cuticchio, i Colla, Otello Sarzi, tutto passava per Pontedera, che in quel momento storico rappresentava la rottura dei confini e delle barriere tra i generi e le famiglie del teatro. Sartori tenne il suo corso al centro di un convegno universitario sulla Commedia dell’Arte tra i relatori c’era il prof. Mastropasqua. In quella occasione ho capito, o meglio, ho intuito senza capirlo, che la Maschera è il Teatro, e ho seguito Sartori quando mi ha proposto di lavorare con lui nella sua casa-laboratorio nella campagna di Abano Terme. Lavorare in quella casa non significava solo produrre maschere di cuoio, ma anche studiare, accumulare materiali e conoscenze, e, dopo anni di accumulo, mettere in ordine. Ma è stata quella intuizione: “la maschera è il teatro”, che si può leggere anche al contrario: “il teatro è la maschera”, condivisa fin dall’inizio con Fernando Mastropasqua, a far nascere l’esigenza di un’opera che conferisse a questo oggetto i connotati di un punto di vista attraverso il quale riesaminare tutti i princìpi del fare teatro. L’idea del libro è comunque sempre stata quella di un manuale-antologia di fonti destinato agli studenti, soprattutto a quelli non abituati a questo genere di argomenti.

2)    Durante la sua formazione Universitaria in Storia del teatro è stato seguito dal Prof. Fernando Mastropasqua con il quale ha conseguito la laurea; nei tempi successivi avete sviluppato aree di interesse diverse per quanto riguarda lo studio della maschera?Diverse non direi, anzi. Mastropasqua per me è stato ed è IL Maestro; le nostre aree di interesse sono sostanzialmente le stesse. Maggiori sono invece le sue capacità di spaziare in territori d’indagine che io forse non avrei affrontato spontaneamente, come il teatro di varietà, o il circo; anche se sono io, poi, ad aver lavorato, per esempio, con Zingaro, il circo-teatro di Bartabas. 

3)    Lei realizza anche manualmente delle maschere, qual è  la cosa più importante che insegna ai suoi allievi durante i laboratori sulla realizzazione della maschera?
Il messaggio più importante, quello alla cui comunicazione io tengo di più,  si può sintetizzare in questa frase: “non facciamo gli artisti”. La costruzione di una maschera è una fatica artigianale. Qui non si può dire “io lo vedo/sento così”, come fa l’artista. C’è da costruire l’immagine di uno spirito, o di un dio, o di un personaggio teatrale, che poi sono la stessa cosa, e bisogna stare attenti a quello che ci si mette dentro, perché lo spirito, o l’attore, che poi sono la stessa cosa, potrebbe non riconoscersi, e allora la maschera non funzionerebbe. “Funziona” o “non funziona” corrisponde oppure no, questi sono gli unici criteri di giudizio per la realizzazione di una maschera. Non “è bella” o “è brutta”. E soprattutto il mascheraio è un artigiano che umilmente si mette al servizio, dell’autore, poi del regista, poi dell’attore, che è l’utente finale dello strumento che si costruisce. Figuriamoci se in una prospettiva simile sono ammissibili le velleità narcisistico artistoidi new age che vanno di moda oggi.

4)    Come si relaziona con la sua doppia anima di artigiano e studioso quando realizza una nuova maschera? Nella fase della genesi si ispira a qualcosa di totalmente nuovo o a un concetto preesistente?  
Dopo un periodo passato sui libri ho sempre provato una sorta di insofferenza, la stessa che provo durante un laboratorio nel quale trascorro la giornata tra creta, gesso e colori.  Io penso che esista un sapere al quale si può accedere studiando libri e un altro che passa da quella conoscenza che viene dalle mani, dall’attraversare la materia. E’ per questo che i miei seminari sono stati sempre teorico-pratici. Se, studiando una maschera, si tenta anche di ricostruirla e ci si confronta con la concretezza della creta, della colla del colore, si finisce col conoscere molte più cose e col capire meglio quello che si sta studiando/facendo. Questa doppia anima è sempre stata molto presente in me, oggi, tuttavia, non vivo più tutto ciò come un conflitto. Penso anche che quello di separare saperi e dividere discipline sia uno degli errori tipici della nostra epoca. Leonardo costruiva e studiava, pensava e scolpiva, dipingeva, progettava e scriveva, componeva e suonava.

5)    Ci parli dell’invisibile legame fra carne e totem.
Immagino si riferica a qualcosa che riguarda la psicanalisi e questo mi rende difficile rispondere. Per gli Indiani che frequento io, i Kwakiutl della British Columbia, il totem è presenza assoluta e inviolabile, quindi è carne. Può essere creato ma mai restaurato. Non è un legame è un’identità.

6)    Prima Darwin e successivamente Paul Ekman si sono interessati allo studio delle emozioni constatando che il volto può esprimere fino a 10.000 microespressioni facciali, quanto incide questo aspetto nei suoi studi? 
Non incide per nulla. Per tirare in ballo in maniera molto grossolana un argomento che affronto nella seconda parte della ricerca, nel teatro della Grecia antica, il tramonto della maschera è avvenuto proprio quando, con Menandro, il personaggio ha perso il proprio carattere di icona, cioè di immagine emblematica, simbolica, per diventare entità espressiva ricca di sfaccettature e di sfumature, soggetta a cambiamenti di condotta. La maschera non serviva più, perché era costretta a rincorrere il volto sul terreno della mobilità laddove il suo specifico comunicativo è la rigidità. Quando la maschera vuole imitare la quantità di espressioni di cui è capace un volto, essa perde ogni ragione di esistere. E’ un po’ come vedere una competizione tra cinema e fotografia. Il primo non è superiore alla seconda perché descrive il movimento. Sono solo due linguaggi diversi che parlano all’anima in modo diverso.

Maschera Kwakwaka'wakw di Uccello Tuono (della famiglia Hunt). Museo Nazionale di Victoria (British Columbia, Canada)

Maschera Kwakwaka’wakw di Uccello Tuono (della famiglia Hunt). Museo Nazionale di Victoria (British Columbia, Canada)

7)    Le espressioni facciali false a differenza di quelle vere sono intenzionali e comportano l’innesco di una maschera, come si rapporta con questo aspetto nella vita di tutti i giorni? 
Esattamente come ci rapportiamo tutti con il falso che domina la nostra società, o meglio tutti quelli che il falso sono in grado di decifrarlo e smascherarlo; ma questo non riguarda né i miei studi né l’opera di cui stiamo parlando. Personalmente non amo il gioco di questo genere di maschere.

8)    Mischiamo gli elementi: cosa succederebbe se uno sciamano in piena trance conducesse un esorcismo?
Ci sono elementi che non si possono mischiare a rischio di fare critica tendenziosa, ci sono culture che non si possono, a capriccio, travasare da un alambicco all’altro. De Martino ci ha insegnato che l’attenzione al contesto e all’orizzonte categoriale di una cultura non sono degli optional per la comprensione dei fenomeni.

9)    Negli ultimi decenni le popolazioni nordiche si sono ricongiunte alla mitologia narrata nell’Edda, alle loro radici: questi temi verranno trattati in qualche modo nel secondo volume dell’opera? 
No. Se questa prima parte, dedicata alle origini rituali della maschera teatrale, riporta alcuni esempi tratti dall’antropologia, secondo me efficaci per la comprensione del linguaggio della maschera, la seconda parte sarà tutta dedicata all’evoluzione di questo oggetto nei tre generi del teatro greco, Tragedia, Commedia e Dramma Satiresco, e al rapporto tra la tecnologia costruttiva e la funzione espressiva della maschera.

 10)    Fumetto e cinema di genere: la maschera è stata una colonna portante di entrambi, pensiamo al capolavoro di Miller “Il Cavaliere Oscuro” o “Non aprite quella porta” di Tob Hooper, opere basate su concetti dinamici come il transfert e la de-individuazione, vorrei chiederle se, allo stato attuale c’è un abuso smodato del “sistema maschera”?
Sì, nel primo capitolo ho parlato di un impoverimento generale del significato della maschera, che oggi viene percepita per lo più come oggetto che serve a nascondere anziché a rivelare, mentre nel teatro antico o nel terreno antropologico la funzione rivelatrice è dominante. I casi che lei cita andrebbero analizzati in profondità e separatamente, perché, per esempio, il fatto che per un personaggio come Leatherface, l’autore preveda maschere differenziate, come la Maschera della Fanciulla Dolce o la Maschera della Rabbia o del Macellaio, è molto interessante perché fa pensare a una maniera “antica” di intendere la maschera.

11)    Ho avuto modo di vedere alcune delle maschere da lei realizzate: i segni del tempo, le rughe che segnano volti, il cui baricentro è spostato verso la follia. Sembra che il palesarsi della patologia sia un normale flusso vitale facendo, a mia sensibilità, emergere una dimensione antipsichiatrica. C’è un intento di questo tipo nella realizzazione di questa serie di  maschere? Oppure si tratta più semplicemente di una filiazione diretta della maschera silenica greca? 
Se ci riferiamo alle maschere dei servi della Commedia Antica, la filiazione diretta della maschera silenica è fuori di dubbio. Forse però posso fare un esempio utile a chiarire una trasformazione avvenuta già nell’antichità nella concezione della maschera. Sileno, e con lui i satiri, ha zigomi alti, naso rincagnato, narici dilatate, occhi vividi, ed è colorito in volto di un rosso acceso. In questi lineamenti è contenuta tutta la simbologia della bestia divina caprina legata all’ambiente dionisiaco: naso del demone caprino che respira a pieni polmoni, occhio pieno di vitalità animale, rosso del sangue, dell’amore, del sesso inneggiante alla vita. Ecco, con le Physiognomonikà, cioè con la scuola postaristotelica, questi, che erano simboli, diventano sintomi, affezioni fisiologiche di un tipo umano: quello del folle lussurioso. Il rosso è dovuto all’eccesso di circolazione sanguigna, e gli occhi spiritati diventano sintomo di sfacciataggine, così le narici dilatate, come quelle dei lussuriosi cervi, producono una sovrabbondanza di ossigenazione che induce alla sfrenatezza sessuale. E così via. È chiaro che al teatro interessa il primo approccio e non il secondo. Comunque, se dire che il folle ha più diritto di cittadinanza e viene meglio accolto nelle civiltà “antiche” contemporanee piuttosto che nella nostra è una posizione antipsichiatrica allora sì, ne sono convinto.

12)    Nei primi tre capitoli del libro (Il volo dello sciamano, I Gorgoni eroi e uomini qualunque: la maschera Greca, Il Dio della maschera: Dioniso e la metamorfosi) antropologia culturale, etologia e mito si intrecciano gli uni negli altri dando vita uno stimolante ribollire del subcosciente, che oggi la tassonomia specialistica ha troncato. È volontà di questo libro riportare il lettore in quell’antico magma? 
Più che riportare, “offrire” al lettore un’ombra di quella antica visione, perduta, che è totale e unitaria, e non conosce steccati fra un sapere e un altro, tra un pensiero e un altro, e fortunatamente ignora la tassonomia specialistica.

13)    Possiamo definire il teatro come un rito psicodinamico collettivo?
Niente affatto. Ma cosa sia definibile come teatro è questione tanto complessa da non potersi comprimere in una piccola risposta.

14) Metodo Stanislavskij: chi c’è dietro la maschera quando la maschera non c’è? 
Stanislavskij o non Stanislavskij, Goldoni o non Goldoni, la maschera c’è sempre. Non esiste teatro a volto nudo, perché anche il volto nudo è maschera, altrimenti il teatro non avrebbe forme. Il problema è affrontato nell’ultimo capitolo del libro.

Maschera di "S" per lo spettacolo "Essedice", di Sacchi di Sabbia, Falossi, Gipi. (Lino stuccato) - di F. Falossi

Maschera di “S” per lo spettacolo “Essedice”, di Sacchi di Sabbia, Falossi, Gipi. (Lino stuccato) – di F. Falossi

15) Ci racconti dello spettacolo teatrale “Essedice” del 2010 con Gipi e Sacchi di Sabbia, penso che sia stato emozionante entrare nell’intimità di un ricordo infantile, visto che lo spettacolo riguardava proprio la vita del padre del fumettista. Vorrei chiederle inoltre se Gipi le ha fornito indicazioni per la realizzazione delle maschere o ha lavorato in totale libertà? 
Prima di tutto devo dire che Essedice è stata un’esperienza magnifica. Ho conosciuto Sergio, il padre di Gipi, molti anni prima di conoscere il figlio. Negli anni dell’Università, quando volevo diventare un fotografo, mi aiutava bonariamente e mi lasciava andare nel suo magazzino a scovare pellicole e carte da stampa un po’ datate che poi mi regalava. Non c’è stato un problema di intimità, perché il feeling con Gipi e con Giovanni Guerrieri dei Sacchi di Sabbia è qualcosa che ci lega ancora. E poi quello era uno spettacolo “greco”: niente di psicologico, niente di psicoanalitico. Quello che si metteva in scena era una compresenza impossibile di vivi e di morti, resa possibile dalla maschera. Sul palco c’erano “S”, che non c’è più, Gipi bambino, che non c’è più, la giovane mamma di Gipi bambino, che non c’è più, e il Gipi attuale, che invece c’è, ma che, se vuole interagire con gli altri, deve indossare la maschera, pena l’impossibilità di comunicare. Tutto questo per opera di due extraterrestri di vonnegutiana memoria che hanno la bella idea di trasformare il corso lineare del tempo in un tempo circolare,(cioè nel tempo del teatro antico), un eterno presente, dove i morti tornano e con loro si può parlare. Per questo, quando ho costruito le maschere per lo spettacolo, ho voluto usare la tecnologia della maschera greca e le ho fatte di lino stuccato.
No, Gipi non è il tipo che fornisce indicazioni. Io volevo portare i suoi disegni nella terza dimensione. Non era difficile, perché il suo modo di concepire il disegno dei volti è basato sull’eliminazione dell’inessenziale. Non ci sono particolari realistici; non ci sono connotati fotografici o anagrafici. Insomma non ci sono ritratti, ma solo icone, come nella pittura bizantina. In un volto lui mette “gli” occhi, “il” naso, “la” bocca, e naturalmente “le” orecchie, quelle che fa solo lui. Poi c’è il connotato dell’età: più giovane, meno giovane, vecchio. E poi basta. Sono il contesto, l’azione e la parola che definiscono il personaggio. Un altro grosso punto d’incontro con la maschera greca. Sì, ho lavorato in totale libertà e in un clima di festa, viste le sue reazioni ogni volta che nasceva una nuova maschera. Poi le abbiamo colorate insieme.

16) La pregherei di togliersi la maschera e dirci la prima cosa che le viene in mente. 
Il mascheraio è la coscienza della maschera, per questo come lei è una testa vuota priva di cervello e di pensiero.

Tutte le foto sono di Ferdinando Falossi

Maschera di Dioniso, per Vittorio Gassman.(Lino stuccato e pelliccia di capra) - di F. Falossi

Maschera di Dioniso, per Vittorio Gassman.(Lino stuccato e pelliccia di capra) – di F. Falossi

 

Ferdinando Falossi, laureato in storia del teatro e dello spettacolo con una tesi sulla maschera greca, ha collaborato all’insegnamento di Storia del Teatro dell’Università di Pisa. Lavora oggi come operatore presso la Cooperativa CREA di Viareggio. Ha realizzato diversi “spettacoli” all’interno delle strutture per il disagio giovanile e le malattie mentali, e le ha documentate in video. Allievo di Donato Sartori è costruttore di maschere, sia in cuoio che in altri materiali, ha realizzato maschere per gli spettacoli teatrali di Zingaro e per il Re Lear del Footsbarn Travelling Theatre. Tra le sue pubblicazioni L’erma dal ventre rigonfio. Morfologia della maschera comica, a cura del Teatro Laboratorio diretto da Beatrice Pre- moli, Roma, ETL, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari, 1989 e Gorgòneion: la forma del- l’oxymoron in AA.VV., Maschera Labirinto, Roma, ETL, 1991. Tra i suoi video Totem, Viareggio, CREA, 2005, Cartamusica, Viareggio, CREA, 2013.

Fernando Mastropasqua, già professore di Storia del Teatro presso le Università di Pisa, Trento e Torino, si è occupato di feste, di maschere antiche, di carnevali, di regia. Le sue più recenti pubblicazioni sono: Komos, il riso di Dioniso: Maschera e Sapienza, Roma, ETL, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari, 1989; Metamorfosi del teatro, Napoli, ESI, 1998; In cammino verso Amleto (Craig e Shakespeare), Pisa, BFS, 2000; Teatro provincia dell’uomo, Livorno, Frediani, 2004; La scena rituale, Roma, Carocci, 2007; collabora alla rivista “Critica d’Arte”.