Falossi/Mastropasqua “La poesia della maschera”

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A distanza di circa un anno dall’uscita del libro “L’incanto della maschera – Origini e forme di una testa vuota”, Fernando Mastropasqua e Ferdinando Falossi presentano il secondo volume, “La poesia della maschera – Una testa vuota fonte di conoscenza.”

“La Poesia della Maschera” affronta il problema del linguaggio poetico della maschera stessa. Si entra nel dettaglio dei tre diversi generi del teatro greco del periodo classico: Commedia, Tragedia e Dramma Satiresco, e si vede come la tecnica costruttiva della maschera e le sue dinamiche vadano di pari passo con l’evoluzione del linguaggio teatrale.

Pagine: 344
Formato: 15×22 cm
Data di pubblicazione: 12-12-2015
Testi di: Ferdinando Falossi e Fernando Mastropasqua
Prezzo libro cartaceo: 30.00 €

Tra il primo e il secondo volume intanto è nato un sito dedicato a questo importante progetto dove è possibile trovare maggiori informazioni sui libri e sugli eventi: le vie della maschera,  e che vorrebbe diventare un luogo di discussione e di riflessione sulla maschera, con la possibilità di segnalare e avviare nuovi studi sul tema.

In occasione della presentazione di questo secondo volume a Pisa, il 19 aprile scorso presso il Teatro di Sant’Andrea, abbiamo intervistato i due autori. Di seguito troverete il video dell’intervista e alcune risposte scritte che per motivi di tempo non sarebbe stato possibile affrontare in loco.

1) Nei diversi tipi di Carnevale, Cournon, Skyros, Ptuj ad esempio, si nota un denominatore comune: il ribaltamento della realtà e l’avvicinarsi da parte di tutta la collettività, bambini compresi, ad elementi orrorifici che si confondono con elementi appartenenti al registro comico. Che nesso ha questo aspetto con la tragedia greca e quanto è importante la conservazione di questi riti sociali oggi?

Mastropasqua
È indubbio che tragedia e carnevale appartengono ambedue all’ambito dionisiaco. Anche se formalmente distanti hanno una comune origine nel mito e nei misteri più arcaici della cultura greca. Riso e terrore appaiono spesso intrecciati, quasi il primo potesse mitigare il secondo, oppure esserne addirittura la conseguenza. Ancora in era cristiana durante le rappresentazioni medievali il diavolo è raffigurato in forme mostruose che suscitano terrore, ma si rivelano inaspettatamente comiche. Ne sono testimonianza anche i diavoli danteschi. In molti carnevali, dalla Sicilia al Trentino,  queste figure continuano ad agire tale suprema contraddizione, che è all’origine della maschera come dimostra Falossi nel racconto del bubusettete. Forse l’umanità continuerà ad avere maschere e bubusettete – e sarebbe bene – ma contemplando il presente dispero che tali riti sociali avranno un futuro. I nostri nipoti più probabilmente tremeranno di paura e scoppieranno d’ilarità davanti a un computer in totale solitudine.

Falossi
Il riso, il pianto, la paura, così come la vertigine, la conoscenza, l’ebbrezza o la follia, fanno parte dei doni di Dioniso. Come ci raccontano ampiamente le Baccanti di Euripide, Dioniso, col suo Carro Navale, porta in dono alla Città la chance del rovescio del mondo, del Carnevale. Le Donne, il saggio e bambini si accostano spontaneamente a quella che Platone chiamava “follia giustamente orientata”. La vera tragedia che trasforma la festa in lutto arriva con il rifiuto della festa stessa. È il rifiuto in nome della serietà ad essere tragico, e il rifiuto del gioco e dell’ebbrezza in favore di una follia tutta negativa, fatta di armi e impregnata di violenta imbecillità è un’invenzione tutta maschile. Penso che dovremmo meditare molto di più sulle nostre attuali tragedie, che sembrano derivare tutte dalla nostra “serietà” e mai dai sani elementi orrorifici del Carnevale.

Maschera del Primo Nonno, di epoca menandrea. Da Lipari

Maschera del Primo Nonno, di epoca menandrea. Da Lipari

2) Perché dopo l’esperienza di Meneandro -che contribuì allo sviluppo della maschera comica nella commedia greca- c’è un’involuzione nelle capacità espressive della maschera?

Falossi
Lo specifico del linguaggio della maschera è la rigidità, con tutto ciò che essa porta con sé: lo spazio del volto è inteso come luogo dove si dispongono segni come quelli dell’età o del lutto, si veda il caso delle acconciature di Elettra o di Antigone, o i graffi sui volti delle Supplici, ma anche la cecità di Edipo o di Tiresia, o semplicemente le fauci del leone che incorniciano un volto assolutamente “normale” come quello di Eracle, rendendolo immediatamente riconoscibile. Non si tratta di espressione, ma di identificazione. L’espressione si raggiunge con altri mezzi, come la voce, il gesto, il movimento del corpo, il potere evocativo della parola. Solo una maschera che non abbia un’espressione determinata può essere in grado di produrre un’infinita serie di sfumature espressive. Questo non deve sembrare strano, perché in quel periodo, mi riferisco al VI, V secolo a.C, tutta l’arte plastica segue questa regola. L’Auriga di Delfi o l’Afrodite Sosandra o un’infinità di altre opere, hanno espressioni indefinite che oggi, sbagliando, definiremmo “neutre”; e qui mi viene in mente Jaques Lecoq, che usa da sempre la maschera neutra di Sartori per lavorare sull’espressione corporea. Non serve muovere tanto i lineamenti. Non serve aggrottare le sopracciglia o spalancare gli occhi. Forse è utile oggi, al cinema o in televisione, ma non in un teatro da 12.000 posti come quello di Epidauro! Ciò che si richiede invece alla maschera in un’epoca “intimista” come quella di Menandro è proprio questo: esprimere il sentimento, e non solo: esprimere il cambiamento, il ripensamento, la mutazione dell’animo. Le antiche figure del teatro avevano volti di spiriti, di antenati, di dèi; erano prima di tutto icone. I personaggi di Menandro escono spesso dal ruolo, fanno ciò che da loro non ci si aspetta: cambiano. Alle loro maschere si richiede di essere primi piani capaci di seguirli in tutte le loro evoluzioni. È qui che il linguaggio della rigidità si dimostra inadatto. Inoltre, anche in questo caso, la forma della maschera segue i criteri artistici della propria epoca, e quella di Menandro è l’epoca in cui l’espressione dei sentimenti fa il proprio ingresso trionfale nella pittura e nella scultura dei Greci. È in questo periodo che si cominciano a vedere le famose sopracciglia “alla Laocoonte”, cioè innalzate verso il centro della fronte per esprimere dolore. Ma l’espressione di un solo sentimento, per la maschera, è una trappola fatale. Menandro continuerà, nella propria epoca, ad essere rappresentato con le maschere, ma c’è ormai qualcosa che denuncia l’inadeguatezza di questo mezzo alle nuove esigenze di linguaggio. In poche parole il tipo si scontra con il personaggio.

3) Mito e anatomia nell’epoca del teatro greco: in che misura hanno influenzato la costruzione delle maschere?

Falossi
L’anatomia della maschera, come quella della scultura in generale, è dettata direttamente dal mito; e il mito non descrive ciò che è inessenziale, o particolare, ma solo ciò che è essenziale. In esso non c’è nulla che non sia funzionale alla comunicazione del mito stesso e del suo complesso metaforico. Questo criterio produce obbligatoriamente dei volti ideali, sia nella tragedia che nella commedia; ideali perché la loro anatomia deriva da un ideale, da un archetipo. Voglio dire, per esempio, che la zoppìa di Edipo o la cecità di Tiresia sono segni che servono a raccontare la storia di queste due figure, né più né meno come la loro età, e non sono mai dati anagrafici incidentali. Edipo non ha i  “piedi gonfi” per una semplice, casuale, e quindi particolare, malformazione. I suoi piedi raccontano ciò che gli fu fatto da neonato e sono funzionali al compimento del suo destino. Sono una metafora, non una fotografia. Se quei piedi non avessero avuto un legame profondo con tutto il mito di Edipo, la menzione della loro deformità non avrebbe mai potuto trovare posto né nella diffusione orale del mito, né nella interpretazione poetica che di quel mito compie Sofocle. Questo vale sempre, in epoca classica, per l’anatomia di ogni maschera, sia tragica che comica. Il mito non descrive la fisionomia se non quando è necessario farlo perché il dato è funzionale al racconto. In caso contrario la descrizione del volto è assente, e allora si deve immaginare (e costruire) un volto che abbia “gli” occhi, “il” naso e  “la” bocca fatti come il canone dell’epoca prevede che siano fatti.

4) Proporzioni fra testa e maschera nel teatro greco.

Il quadrato inalterabile che consente la parola e la visione in una maschera che deve vedere, respirare, parlare

Il quadrato inalterabile che consente la parola e la visione in una maschera che deve vedere, respirare, parlare

Falossi
Le forme e le dimensioni che può assumere una maschera sono infinite e dipendono solo dal modo attraverso il quale una comunità umana immagina, cioè dà immagine, ai propri dèi, ai propri spiriti, ai propri antenati. Così, quando il dio che ci si figura non è pensato a immagine e somiglianza dell’uomo, nascono maschere alte quanto un palazzo di tre piani che compiono azioni che non hanno nulla di umano e che danzano producendo suoni privi di parola.  La maschera del teatro greco è prima di tutto una testa umana parlante. Ciò di cui essa si fa strumento di espressione, che sia il dolore tragico di Antigone o la esilarante utopia di Diceòpoli, è squisitamente umano. Questo è ciò che determina la sua forma: una testa che deve contenere un’altra testa, quella dell’indossatore, senza alterare le proporzioni generali del corpo dell’attore; una cosa alla quale il greco del v secolo a.C. è particolarmente sensibile. Con una maschera sul viso un attore deve: vedere bene, respirare bene, parlare bene, muoversi bene anche durante una danza. Il progetto ha intenti molto semplici la cui realizzazione, tuttavia, presenta una notevole complessità. Una buona testa parlante deve aderire al cranio, alla fronte e alle tempie dell’attore; deve veder coincidere il centro dei propri occhi con le pupille dell’attore, appoggiare bene sul suo naso, ma non aderire né al mento né alle guance, anzi deve lasciar libera la mandibola dell’attore di muoversi al suo interno articolando parole in tutta libertà, se necessario urlando, ridendo o piangendo. Questo porta a un allungamento della parte inferiore della maschera che corrisponde esattamente alla misura della bocca spalancata dell’attore. La stessa misura si distribuisce in modo uniforme sulle due metà della larghezza della maschera. Ciò crea una sproporzione tra cranio e guance che viene ridotta e annullata mediante i volumi delle barbe o delle acconciature. Questa la proporzione tra testa dell’indossatore e la maschera nel periodo classico; nei periodi successivi assistiamo ad un ingrandimento vertiginoso della maschera che rimane a tutt’oggi abbastanza misterioso e che è dovuto probabilmente a un profondo cambiamento nell’architettura del teatro.

Papposileno dal Cratere di Pronomos. Esperimento di ricostruzione in cuoio (1982)

Papposileno dal Cratere di Pronomos. Esperimento di ricostruzione in cuoio (1982)

5) “Mi sento sempre come qualcuno che si spoglia lentamente prima di andare a letto”. Carmelo Bene disse questo di sé, alludeva forse al fatto di essere schiavo delle sue maschere?

Mastropasqua
Non conosco il contesto in cui Carmelo Bene abbia pronunciato questa frase, ma credo che si possa interpretare così. Maschere certo, ma che sono anche incubi notturni, abissi onirici. Lo spogliarsi nel suo teatro ha molte valenze, ricordiamo per esempio l’avvolgersi e svolgersi in lunghi bendaggi dal Don Chisciotte con Leo de Berardinis al Macbeth con Susanna Iavicoli. E come dimenticare l’angoscioso lentissimo spellamento nel finale della Salomé? Essere spellato, spogliato oltre la nudità, privato di quella pellicola sottile, che è ultima difesa allo sgretolarsi del corpo, come accade al manichino in pezzi del Riccardo III che una pietosa madonna cerca invano di rimettere insieme. Spogliarsi significa anche mostrare l’orrore ossimorico di essere in quanto ‘mancanza’. Pensiamo a Otello o la deficienza della donna, che tante ire gli procurò da parte delle femministe. Eppure non era un insulto, ma la dichiarazione, lacaniana, dell’impossibilità d’amare, l’impossibilità a tenere tra le braccia un corpo femminile, come esplicita nei suoi molteplici e vani tentativi anche nel Riccardo III. Se una definizione si può dare del teatro di Carmelo Bene è appunto quella di ‘teatro della mancanza’.

6) In che modo Eduardo de Filippo ha influenzato l’arte di bene? In quali rapporti erano i due artisti?

Mastropasqua
Indubbiamente Carmelo Bene stimava molto Eduardo, tanto è vero che fecero insieme un memorabile spettacolo di poesia. Non direi invece che ci sia stata in Bene una eredità eduardiana. Piuttosto penso che sia rimasto affascinato dalla recitazione di Memo Benassi. Chi abbia avuto modo di vedere qualche registrazione degli spettacoli di questo attore sarà rimasto colpito dalle ‘strane’ interpretazioni di Benassi. Non ‘dialoga’ mai con gli altri attori in scena, anche nei superdialoganti e superdialettici testi pirandelliani. Costruisce un  ‘a solo’ incantatore che dura per tutto lo spettacolo, interrotto ogni tanto dalle battute degli altri. Credo che questo tipo di recitazione abbia ispirato a Bene la poetica del monologo. Quando il dialogo è assolutamente necessario come nella scena in cui Orazio informa Amleto della presenza del fantasma del padre, Bene lo trasforma in un duetto musicale come nell’opera lirica. Certo avrà ammirato il rigore della costruzione formale dei personaggi in Eduardo, ma quel realismo implacabile è molto lontano dalla recitazione di Bene, dal suo delirio in scena. La sua invocazione: ‘liberate Eduardo da Einaudi’ forse era un modo per dire che amava di più Eduardo come interprete delle commedie di Scarpetta, come realizzatore della maschera di Felice Sciosciammocca inventata dal padre.

 

 

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Ferdinando Falossi è uno studioso della maschera. Laureato in storia del teatro e dello spettacolo con una tesi sulla maschera greca, ha collaborato all’insegnamento di Storia del Teatro dell’Università di Pisa. Allievo di Donato Sartori, per quanto riguarda la maschera della Commedia dell’Arte, è costruttore di maschere, sia in cuoio che in altri materiali, e da molti anni conduce una ricerca specifica sulla morfologia e la tecnologia della maschera del teatro greco classico.
Ha condotto laboratori e realizzato maschere per numerose compagnie teatrali e scuole di teatro tra le quali Zingaro, Footsbarn Travelling Theatre, La Bottega del Teatro di V. Gassman, La Città del Teatro, e, recentemente, per lo spettacolo Esse-dice di Gipi-Sacchi di Sabbia.
Lavora oggi come educatore presso la Cooperativa Sociale C.RE.A di Viareggio. Qui ha realizzato diversi “spettacoli” all’interno delle strutture per il disagio giovanile, la disabilità e la salute mentale, e li ha documentati in video.
Tra le sue pubblicazioni L’erma dal ventre rigonfio. Morfologia della maschera comica, Roma, ETL, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari, 1989 e Gorgòneion: la forma dell’oxymoron in AA.VV., Maschera Labirinto, Roma, ETL, 1991.
È autore, insieme a Fernando Mastropasqua, de L’Incanto della Maschera. Origini e forme di una testa vuota, Torino, Prinp, 2014.
Tra i suoi video, Amleto, Viareggio, C.RE.A, 2001; Totem, Viareggio, C.RE.A, 2005, Totem II, Viareggio, C.RE.A, 2009; Cartamusica, Viareggio, CREA, 2013; Neverendingpainting, Viareggio, C.RE.A, 2015.

 

Fernando Mastropasqua, già professore di Storia del Teatro presso le Università di Pisa, Trento e Torino, si è occupato di feste, di maschere antiche, di carnevali, di regia.
Le sue più recenti pubblicazioni sono: Komos, il riso di Dioniso: Maschera e Sapienza, Roma, ETL, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari, 1989; Metamorfosi del teatro, Napoli, ESI, 1998; In cammino verso Amleto (Craig e Shakespeare), Pisa, BFS, 2000; Teatro provincia dell’uomo, Livorno, Frediani, 2004; La scena rituale, Roma, Carocci, 2007; collabora alla rivista “Critica d’Arte”.
È autore con Ferdinando Falossi dell’Incanto della Maschera. Origini e forme di una testa vuota, Torino, Prinp Editore, 2014.

 

Fernando Mastropasqua – In assenza di Amleto

Sul finire del 2015 ancora molte cose da pubblicare che scivoleranno ai primi mesi del 2016; intanto in attesa della video intervista a Peter Carravetta e del nostro nuovo libro, plaquette di Nanni Balestrini con un testo critico di Fausto Curi, pubblichiamo un interessantissimo saggio breve del Professor Fernando Mastropasqua su un frammento preciso dell’Amleto shakespereano, quello in cui Amleto non è presente perché spedito in Inghilterra da Re Claudio con l’intento di farlo uccidere.

Il lavoro esegetico che Mastropasqua ha intrapreso sull’opera di Shakespeare (in particolare su Amleto, riuscendo a creare una tavola periodica degli elementi applicabile a tutta l’Opera come sistema codificato e codificabile) durante gli anni ’90, presso l’Università di Pisa, ha un’importanza capitale nella letteratura critica sul Bardo. La vera novità interpretativa di Mastropasqua -che parrebbe quanto meno improbabile, a fronte delle migliaia di pubblicazioni su Shakespeare- sta nel considerare le tragedie e le commedie testi teatrali prima che letterari o piuttosto nell’ affrontare questi due aspetti come inscindibili.
Può sembrare un’ovvietà, ma spesso le analisi dei testi shakespereani rimangono sulla superficie narratologica e semantica, che pure è importante, ma solo se calata nella tecnica della rappresentazione teatrale elisabettiana. Questo percorso estremamente suggestivo, che si fa carico di una ricerca capillare su ogni singolo vocabolo e comparativa sulle diverse versioni di un’opera, porta a risultati sorprendenti e ci mostra il testo nella sua stratificazione di significati, un vero e proprio palinsesto che ci fa conoscere l’intrinseco più che lo svolgimento dei fatti. Vedere con occhi nuovi Amleto significa esperire un lavoro ermeneutico che si espande giocoforza dall’ambito letterario (semantica, fonologia, etimologia) alla antropologia, dalla storia al folklore, dalla cultura enciclopedica medievale e rinascimentale fino all’arte, all’arte della memoria e alla scenotecnica.

Questo breve saggio che presentiamo è la porzione di un lavoro ben più ampio che speriamo di pubblicare in futuro in volume.

Qui potete scaricare in pdf la porzione del testo di Amleto che viene analizzata, nella prima redazione Q1.

 

IN ASSENZA DI AMLETO
Scene XII-XV del I in-quarto dell’Amleto di Shakespeare

di Fernando Mastropasqua

 

Le tenebre della politica

    Dopo la morte di Corambis, alla fine della scena XI (142-159) del I in-quarto edito nel 1603 (Q1) [1], Amleto si avvia a una morte per acqua. Esiliato dal Re in Inghilterra, scortato da Rossencraft e Gilderstone, alla stregua dei folli, dei malati, degli indesiderati, viene imbarcato su una nave [2], il cui porto è la sua decapitazione. Rossencraft e Gilderstone hanno in consegna una lettera per il Re d’Inghilterra, nella quale il Re di Danimarca gli ordina di giustiziare il nipote. Le cose andranno diversamente. Amleto scoprirà la lettera e, sostituito il proprio nome con quelli dei due lord-sicari che lo accompagnano, la sigillerà nuovamente: i due compari moriranno al posto suo. In modo fortunoso, che il I in-quarto non chiarisce, il principe riuscirà a tornare in Danimarca, in tempo per assistere ai funerali di Ofelia. La scena XVI si apre con i lazzi dei due clown-becchini che stanno preparando la fossa per Ofelia, misteriosamente annegata. Lei realmente morta per acqua.

Fig. 1 – Sebastian Brant “La nave dei folli” XV sec.

    Una nave approntata a condurre chi vi sale verso un destino fatale (il naufragio o l’assassinio all’approdo) rievocava in scena il fantasma delle navi dei folli (fig.1) con il loro carico di disperati violentemente espulsi dalla società che appestavano con la loro diversità. Le tenebre della politica non si sono diradate, se anche lo spettatore di oggi non può fare a meno di confondere la nave del principe arrestato e allontanato dalla corte con più recenti navi dei folli che continuano a solcare i nostri mari con altri nomi ma con gli stessi scopi, che siano le zattere di fortuna dei boat-people o i gommoni dei profughi o gli scafi malamente rappezzati  che trasportano una umanità dolente di cui ci si vuole liberare, un surplus di vite da abbandonare alle acque, come le arance lasciate marcire nei troppo copiosi frutteti di Sicilia.

   Morire per acqua è il sintomo della violenza politica che regna in Danimarca ed è l’apertura e il finale dell’azione nelle scene in esame.

   Mentre Fortenbrasse, principe di Norvegia, sbarca con un esercito sulle coste, una nave salpa dalle stesse coste per liberare il regno da quel principe scomodo che ha osato denunciare l’usurpazione del trono da parte dello zio, assassino del padre e sposo della madre, complice e amante. “Una volta morto lui, solo allora il nostro stato sarà davvero libero.” sospira il Re (XI, 159). E non si è ancora spenta l’eco di queste parole che in scena irrompe Fortenbrasse con l’esercito invasore, ufficialmente per transitare sulle terre danesi al fine di aggredire la Polonia, ma con la ferma rivendicazione di quelle terre. Il Re spedisce a morte  il ‘pericoloso’ nipote e apre le porte a un esercito nemico che metterà fine alla libertà del suo popolo. La scena XII si apre con l’immagine della persecuzione contro i folli, i diversi, i ribelli, gli assetati di giustizia, abbandonati alla furia del mare, di contro a quella di rozzi conquistatori che vengono accolti amichevolmente. Il folle Amleto e il politico Fortenbrasse sono ironicamente messi a confronto. Shakespeare con grande sapienza drammatica concluderà il dramma con l’elogio funebre del vincitore Fortenbrasse al cadavere del  vinto Amleto.

   Dalla XII alla XV scena si svolge dunque quella parte del testo in cui manca la presenza di Amleto, esiliato e condannato a morte. Questa sequenza è una delle invenzioni più felici del dramma. Nonostante la brevità contiene un succedersi tumultuoso di eventi: la congiura del Re, i timori della Regina, il ritorno di Learte, lo sbarco delle truppe norvegesi, la pazzia e la morte di Ofelia. La situazione generale del regno di Danimarca appare molto complessa ed estremamente fragile. Tanto più che all’aggressione motivata dalle pretese della Norvegia sulla Danimarca si aggiunge il rischio di una guerra civile, in seguito alla rivolta fomentata e guidata da Learte per destituire l’attuale sovrano.  Di fronte a questi gravi pericoli per lo stato la cecità politica del Re è assoluta: sottovaluta l’attraversamento delle truppe norvegesi sul proprio territorio e considera la sollevazione di Learte un problema già superato, dato che Learte vuole la testa di Amleto, e quella, per il Re, è già caduta. Quando scoprirà che Amleto è ancora vivo non troverà di meglio che ordire una nuova congiura con la complicità dello stesso Learte. Gli riuscirà, ma perderà la moglie, il regno e la vita.

La dolente purificazione

   Nell’Amleto di Shakespeare la tipologia del vendicatore, consueta nella drammaturgia elisabettiana, appartiene al personaggio di Learte, mentre Amleto, che rifiuta di lasciarsi invischiare nella catena del delitto, opera perché i propri nemici cadano nella trappola da loro stessi ordita, come Rossencraft e Gilderstone che muoiono a causa del messaggio di morte di cui sono portatori, astutamente manipolato da Amleto.  L’unico omicidio per mano sua [3], quello di Corambis, nascosto dietro l’arazzo al posto del Re, durante il colloquio con la madre, rientra nella stessa logica. Infatti, sostituendosi al Re, l’arazzo diviene la trappola in cui il vecchio cortigiano s’impiglia.

     A differenza del fratello Learte Ofelia, ancora più ferita perché l’assassino è il principe amato, alla vendetta preferisce una più mite e più tragica risposta, dando vita a due piccoli riti [4]: il compianto per il padre e un  richiamo alla primavera che avrebbe dovuto dissipare le tenebre invernali in cui la malvagità ha trascinato la corte danese. Ma il rito per essere efficace ha bisogno di un sacrificio. Ad immolarsi è la fanciulla stessa: coperta di fiori e appesantita dalle vesti annega in un ruscello, mentre continua a cantare vecchie canzoni. Purtroppo il gesto che avrebbe dovuto purificare la corte dalle tenebre della politica si spegne nella dolce malinconia della vittima.

Le due entrate di Ofelia [XIII, 14-41; 68-106]

      La  prima entrata contiene il lamento per la morte di Corambis. La stanza iniziale del canto si rivolge all’assassino svagato, a quell’innamorato che ha tradito le sue promesse d’amore, ad Amleto. Il primo verso “Come riconoscerò il tuo amore, quello vero?” (“How should I your true love know?”) è tratto dalla Ballata di Walshingham dedicata al tradizionale pellegrinaggio al Santuario di Nostra Signora di Walshingham (Norfolk) [5]. Canta l’innamorato come pellegrino, condizione ribadita dalla presenza della conchiglia, dei sandali e del bastone, tipici di chi si reca al santuario di  San Giacomo di Compostela. Nell’Iconologia di Cesare Ripa il pellegrino è icona dell’Esilio: “Huomo in habito di Pellegrino, che con la destra mano tiene un bordone, & con la sinistra ha un falcone in pugno. Due Esilij sono, un publico, e l’altro privato, e il pubblico è quando l’huomo, o per colpa, o per sospetto, è bandito dal Principe o dalla Repubblica & condannato a viver fuor di patria perpetuo, o a tempo. Il privato è quando l’huomo volontariamente e per qualche accidente si elegge di vivere e morire fuor di patria, senza esserne cacciato, che ciò significa l’habito del Pellegrino, & il bordone. Et per il pubblico lo dinota il Falcone con i getti (laccetti di cuoio) alli piedi” (fig.2) [6]. Cesare Ripa distingue tra esilio per bando o per scelta volontaria. La mancata presenza del falcone nella descrizione di Ofelia, denota quella di Amleto come decisione spontanea. In realtà Amleto è stato condannato a morte, ma è particolare che Ofelia non può conoscere. Immagina che egli, disperato per essere stato involontaria causa della morte del padre,  si sia allontanato temendo per la propria vita.

Fig. 2 - Cesare Ripa "Esilio" XVI sec.

Fig. 2 – Cesare Ripa “Esilio” XVI sec.

   Le stanze  successive sono dedicate al ricordo del padre morto. Anche in questo caso Ofelia si ispira a ballate popolari e lamenti tradizionali [7]. Antichissimo è il costume di adornare di fiori il corpo del morto, disposti sul cadavere o addirittura cuciti nei tessuti che lo avvolgono [8]. Mettere una zolla di terra erbosa sotto la testa del morto era tipico della sepoltura del tempo. Nella Ballata della morte di Robin Hood Robin morente prega di appoggiargli la testa sopra una zolla d’erba [9].

     Nella seconda entrata la fanciulla porge ai presenti fiori e ramicelli. La distribuzione gentile di fiori da parte di una ragazza ripete la consuetudine, nei riti primaverili e nelle feste di maggio, di donne agghindate con ghirlande floreali che offrono fiori agli altri partecipanti e ne decorano le case. Quali sono i rametti di piante e i fiori che distribuisce Ofelia? E hanno un significato? Tenendo presente che in ambito popolare i significati possono essere diversi, e a volte contraddittori,  e accogliendo le tesi di Simon Augustine Blackmore [10], possiamo supporre che la ruta simboleggi il pentimento, dato che era costume delle ragazze immergerne un rametto nell’acquasantiera per impetrare la benevolenza divina, perciò ‘erba della grazia’, e Ofelia ne tiene anche per sé. Il suggerimento ad appuntarla diversamente nasce dalla particolarità della grazia che ogni ragazza richiede. La margherita è simbolo di infedeltà e dissimulazione, mentre il rosmarino induce al ricordo, ed era consuetudine distribuirne alle nozze e ai funerali. Le viole del pensiero rafforzano il sentimento del ricordo, intriso di malinconia e dolore. Il finocchio rimanda ad atti di adulazione e inganno, tanto è vero che immediatamente dopo sono citate le violette simbolo di fedeltà e adesso appassite. Pentimento, tradimento, ricordi malinconici e dolorosi, adulazione e inganno, questi sono i pensieri che Ofelia offre, col linguaggio dei fiori, alla corte. Il gesto di distribuire fiori richiama un rito primaverile, ma officiato, come sappiamo dalla didascalia (XIII, 14), da una figura scarmigliata, che accompagna il canto con il liuto, strumento adatto alle lamentazioni e a melodie malinconiche. I fiori offerti negano pure ogni allegria [11]. Il tempo invernale, l’inverno del tradimento e del dolore, non è passato né si può rigenerare con un rito, scacciare magicamente come si scacciano simbolicamente, nelle feste di rinnovamento, i mali che durante l’anno hanno ferito la comunità. “E’ un’usanza più onorata se infranta che osservata” aveva commentato Amleto a proposito del rispetto delle tradizioni (IV, 12-13).

   Alla distribuzione delle pianticelle si accompagnano altre immagini ispirate alle credenze popolari. Ofelia ricorda la storia della civetta e della figlia del fornaio, leggenda tuttora viva nella contea di Gloucester, secondo la quale “Cristo entrò un giorno nella bottega di un fornaio, chiedendo per carità un poco di pane. La padrona che stava lavorando la pasta, ne levò un pezzo e lo pose in forno, dicendo a Cristo di attendere che fosse cotto, ma la figlia rimproverandola della sua prodigalità, lo trasse dal forno, rimettendone soltanto la metà. Questa cocendosi crebbe prodigiosamente, onde la figlia meravigliata si diede ad esclamare: ‘Huh! Huh! Huh!’. Questo grido fece venire in mente a Cristo la civetta, e bastò questo perché la ragazza fosse senz’altro  tramutata in civetta. Il motto si ripete a pungere l’ingordigia dei fornai”[12]. L’umanità è capace di derubare anche Cristo! Nessuno è al riparo dalla tentazione al male, nessuno può vantarsi della propria onestà. Riaffiora il pensiero di Amleto sulla malvagità totale che alberga nell’animo umano, tanto da accusare se stesso di ogni infamia: “Io stesso sono abbastanza onesto ma potrei accusarmi di tali crimini che sarebbe stato meglio che mia madre non mi avesse generato: Oh, sono molto orgoglioso, ambizioso, altezzoso, con più peccati ai miei ordini che pensieri in cui metterli. Che ci stanno a fare persone come me a strisciare tra cielo e terra?” (VII, 158-163). Dopo aver accennato alla storia della civetta e della figlia del fornaio Ofelia intona ‘Robin è tutta la mia gioia’ [13].

   L’invito a cantare il ritornello “e giù e giù e giù” (a down a down a down)  era tipico delle ballate popolari del tempo, come la giga dell’attore elisabettiano Attowell: “Hey down, a down! / Hey down, a down, a down! / There is never a lusty farmer / In all our town / That hath more cause / To lead a merry life…” (vv.1-6) [14]. Quanto alla storia della figlia del re e del ciambellano infedele, nonostante il ciambellano infedele (the false steward) sia presente in molte ballate del tempo, nessuna di quelle pervenuteci sembra adattarsi a questa. Tuttavia l’argomento risulta chiaro in base alla successiva ballata di San Valentino. Subito dopo, infatti, Ofelia avverte: “E se qualcuno ti chiede qualcosa, tu dì così.” (XIII, 87) e intona la canzone di San Valentino. Evidentemente in quella leggenda l’infedele ciambellano seduceva la figlia del re, come ogni Valentino seduce la sua Valentina.

    La canzone di San Valentino è il rimpianto di un tradimento. L’amato non mantiene le promesse: “[il giovane] fece entrare la ragazza, che ragazza non era più quando uscì (…) Disse lei: Prima di scoparmi promettesti di sposarmi. Rispose lui: Certo per il sole che sta lassù, l’avrei fatto se tu non fossi venuta a letto con me” (XIII, 94 – 104). Anche in questo caso il rito viene snaturato e privato della sua efficacia rigenerante. Di nuovo sembra risuonare la voce di Amleto quando profetizza che non ci saranno più matrimoni: “Non voglio più matrimoni, tutti quelli che sono sposati, tranne uno, vivranno, gli altri resteranno come sono.” (VII, 181-182).

   La chiusa con il saluto alle sole donne che appare incongruo: “Dio sia con voi mie signore” (XIII, 105), presente anche nella canzone precedente, conferma l’uso rituale della ballata e acquista in seguito al tema – della ragazza privata con violenza del padre e della innamorata abbandonata – maggior risalto. Molti canti tradizionali si rivolgono direttamente alle donne o invitano un pubblico esclusivamente femminile: “Come on ye ladies, great and small and hear unto me one and all” [15]. Del resto Ofelia non parla a nessuno in particolare e si attiene semplicemente al modulo della canzone. Non può esserci invece, come alcuni commentatori hanno sostenuto, alcun riferimento alla precedente battuta di Amleto che appella il re ‘madre’ (“AMLETO. Addio madre / RE. Il tuo amorevole padre, Amleto / AMLETO. Madre, ho detto. Tu hai sposato mia madre, mia madre è tua moglie, marito e moglie sono un’unica carne, e perciò, madre, addio!”, XI, 148-151), in quanto Ofelia non aveva assistito al congedo dal Re. Del resto il valore della citazione biblica (“L’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne”, Genesi, 2.24) ha senso solo in quel contesto: la battuta di Amleto è di grande violenza satirica, se si pensa che il versetto successivo recita: ”Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, e non provavano vergogna” (Genesi, 2.25). Amleto fa capire al Re che ha messo a nudo lui e la madre, un’unica carne che non prova vergogna per il delitto di cui si sono macchiati.

La morte di Ofelia, fanciulla-betulla

     La morte di Ofelia conferma che il rito dei fiori si ispirava al maggio e che ne è stata incoronata  Regina. Come tale annega secondo i più antichi rituali celtici. Frazer ne dà conto con esempi più miti (ad annegare è un fantoccio sostitutivo) dal folklore russo: “Il  giovedì prima di Pentecoste nei villaggi della Russia, i giovani vanno nei boschi cantando delle canzoni e intrecciando ghirlande, tagliano una giovane betulla, che vestono con abiti femminili e adornano di nastri e di strisce variopinte. Dopo di che fanno una festa alla fine della quale prendono la betulla vestita, la portano al villaggio con danze e canzoni di gioia e la mettono in una casa dove rimane, onorata ospite, fino a Pentecoste. Nei due giorni di mezzo fan visita alla casa dov’è la loro ospite, ma il terzo giorno, Pentecoste, la portano a un fiume e la buttano nell’acqua gettandovi sopra le loro ghirlande” [16]. Il rapporto fra l’albero e la sessualità era dichiarato in espliciti gesti erotici. Nelle feste celtiche “i pali erano in betulla e i giovani danzavano intorno ad essi durante la festosa celebrazione. In modo particolare le fanciulle si strofinavano i genitali sulla betulla (simbolo della Grande Madre) per propiziarsi la fertilità” [17]. In Irlanda era portata in processione una bambolina (Regina del Maggio) su un palo decorato da una ghirlanda fiorita. Questi fantocci erano comuni in Inghilterra ancora nell’Ottocento (fig.3).

Fig.3 - Regina di maggio bambola, XIX sec.

Fig.3 – Regina di maggio bambola, XIX sec.

   Il rito di maggio inscenato da Ofelia in uno stato di delirio, dato che la follia “giovane scarmigliata e scalza si dipinge, perciocché il pazzo non stima se medesimo, né altri, ed è lontano d’ogni politica conversatione” [18], denuncia la condizione irreversibile e totale della malvagità che regola la corte danese e l’assoluta solitudine di Ofelia. “Non c’è in tutta la Danimarca un furfante che non sia una canaglia matricolata” (V, 100-101), aveva sentenziato Amleto, e poco prima Marcello aveva esclamato: “Qualcosa è marcio nello stato di Danimarca” (IV, 58). Se lo spettacolo allestito da Amleto aveva lo scopo di rivelare allo zio il suo delitto, l’assassinio di un fratello, il rituale di Ofelia amplia la follia omicida a tutta la corte, dove si uccide per deliberato disegno o anche per caso. Infatti ‘c’è del marcio in Danimarca’. Deliberato o casuale l’omicidio è di casa in quella corte e Corambis paga per una colpa non sua.

Le quattro metamorfosi di Ofelia

   Durante le due entrate Ofelia, la figlia del ciambellano di corte, subisce delle profonde trasformazioni. I presenti la riconoscono a stento e la compiangono considerandola in preda alla follia per la morte del padre. Potremmo invece pensare, adattando a lei l’osservazione che il padre fa sulla follia di Amleto, nella versione del II in-quarto, che “c’è del metodo nella sua follia” [19]. La prima volta compare tutta scarmigliata con i capelli sciolti, cantando e accompagnandosi con un liuto. Il suo ingresso inatteso sorprende, come uno spettro disturbatore, il colloquio tra il Re e la Regina, preoccupati, per ragioni diverse, dell’esito del bando di Amleto e della rivolta popolare sobillata da Learte. Si alza la voce della fanciulla in un triste lamento per l’allontanamento del principe amato, immaginato come pellegrino (Ballata di Walshingham). Le stanze successive piangono la morte del padre. Al termine la fanciulla scompare. E’ proprio il Re a cogliere immediatamente la trasformazione della ragazza: “Così bella e così disperata! E’ un cambiamento davvero.” (XIII, 42). La prima immagine di Ofelia, in assenza di Amleto, è quella di innamorata abbandonata e figlia in lutto. Nel frattempo Learte e i rivoltosi invadono la scena accusando il Re per l’assassinio di Corambis. Quando le spiegazioni del Re e della Regina, scaricando tutta la colpa su Amleto, stanno persuadendo Learte, Ofelia appare la seconda volta, sempre scarmigliata, sempre con il liuto, ma serrando al petto mazzetti di fiori e pianticelle. E comincia a distribuirne ai presenti. Infine intona la canzone popolare del ‘dolce bel Robin’. La distribuzione dei fiori e la canzone ci dicono che ha subito una seconda metamorfosi. Le azioni e il canto appartengono al rito di maggio, che vede protagonista Marian, la pastorella-Regina del Maggio, in attesa del suo Robin [20]. Questi riti di maggio sono esplosioni di gioia, di canti festosi, di danze, di inni all’amore. Ma in realtà, come abbiamo già notato, i fiori e i rametti di piante che offre Ofelia parlano di tutt’altro: di pentimenti, inganni, ricordi dolorosi, infedeltà. Ofelia-Marian non esalta il risveglio della primavera, ma constata il perdurare delle tenebre invernali. La sua è una regina del maggio ‘alla rovescia’. La fanciulla non ha superato gli accenti di dolore della prima apparizione in un atteggiamento più sereno, ma li prosegue in uno stato di profonda malinconia. Nella sorella Learte riconosce “tormenti peggiori dell’inferno” (XIII, 84). Ma lo stato di Ofelia non perdura nel richiamo a un triste maggio. Dopo il ritornello (“E giù, e giù, e giù” – XIII, 85-86), si trasforma per la terza volta. Non è più Marian, ma Valentina (dal rito di maggio alla festa di San Valentino) [21], e canta il tradimento dell’amato con espressioni inusuali per una ragazza ‘di buona famiglia’: bestemmia, usa termini volgari e pronuncia oscenità con toni di ira e di rancore. Dagli accenti del dolore (Lamentatrice funebre) Ofelia è passata a quelli della malinconia (Marian), e infine a quelli di rabbia di donna violata e abbandonata (Valentina). Poi la fanciulla, col suo addobbo di fiori, scompare di nuovo dalla scena per raggiungere la riva di un fiumicello; sempre cantando, si lascia trascinare dalla sua corrente verso la morte, secondo un rituale arcaico e crudele, che spettava alla Regina del Maggio. Dunque una quarta metamorfosi (da Valentina torna Marian), che però non avviene in scena e di cui dà notizia Gertred.

Trattenere il respiro e interrompere il tempo del delitto

    Si è già notato che i temi affrontati da Ofelia sono quelli stessi che Amleto in più occasioni aveva enunciato; inoltre i due personaggi sono costruiti sullo schema di riconoscibili figure della cultura popolare del tempo: Amleto sulla figura del Nessuno [22] (figg. 4 e 5) e Ofelia su quella di cantatrice funebre, o di Marian, o di Valentina. Amleto dunque è veramente assente? Oppure Shakespeare ha fatto ricorso a un espediente tipico del teatro rinascimentale: l’uso del doppio? Con quella audacia drammatica che gli è propria avrebbe fatto di alcune figure femminili del folklore, interpretate da Ofelia, i doppi del silente Nessuno. Una lettura del genere non si può scartare del tutto, ma, allo stesso tempo, appare restrittiva, incapace di rendere la complessità della situazione. Tale interpretazione finirebbe per considerare queste scene come una ridondanza, un tumultuoso riassunto del ‘pensiero amletico’ che ha pervaso la prima parte del testo e che ha la funzione, precipitando gli eventi, di far scivolare la storia verso la catastrofe finale. L’identità di intenti tra i due protagonisti, a meno di non appiattire Ofelia su Amleto, deriva da una più alta complicità e non da un mero espediente teatrale in voga al tempo.

Quentin Massys - "Allegory Of Folly", 1510

Fig. 4 – Quentin Massys – “Allegory Of Folly”, 1510

   Il rito di maggio, evocato da una regina dolorosa, malinconica, che piange il padre e canta rabbiose oscenità, si insinua inaspettato e dirompente lacerando le tenebre della politica, in cui sono immersi il Re, la Regina e Learte: si apre così uno spazio incoerente – avvertito come pericoloso dagli attoniti manovratori di congiure colti sul fatto -, in aperta contraddizione con lo svolgersi degli avvenimenti. Tutta l’azione trattiene il respiro. Se Ofelia fosse stata il semplice doppio di Amleto non si sarebbe aperta questa frattura, non si sarebbe prodotta questa vertigine, che  coinvolge attori e spettatori. Nel respiro sospeso si blocca la naturale evoluzione della ferocia. L’assenza di Amleto ha lasciato in scena un vuoto di umanità, che ha permesso a Ofelia di spalancare uno spazio inaudito in cui il dolore aggrumatosi nell’interruzione del respiro possa riscattare tutte le colpe della marcia Danimarca. In quel vuoto il canto di Ofelia si leva per inceppare la macchina del delitto. L’intellettuale scettico Amleto aveva scelto il teatro per denunciare l’orrore del delitto del Re; Ofelia ricorre alle vecchie canzoni ascoltate durante le occasioni festive. Ma in tal modo oltrepassa i limiti del proposito di Amleto. Il suo rito di lutto e di impossibili primavere, sporcato dal delirio di potenza del Re, dalla sottomissione al tradimento dell’incestuosa Gertred, dalla insensata sete di vendetta di Learte, opera una  incerta dimensione del tempo, quella del resto che si realizzava durante le feste tradizionali, che interrompe la vita consueta, abituata a scorrere placidamente nell’intrigo. La speranza non è quella di aprire gli occhi dei cortigiani affinché vedano la mostruosità delle proprie scelleratezze, ma quella, più illusoria, di interrompere il tempo stesso del delitto. Sembra che la timida fanciulla tenti di realizzare il compito titanico a cui si sente chiamato Amleto: rimettere in piedi un mondo in frantumi (“AMLETO. Questo tempo è scardinato. Oh, maledetto destino, che mai io sia nato per rimetterlo in sesto!”, V, 163-164). In questo senso esiste una complicità tra Ofelia ed Amleto. Ma le figure create dalla ragazza non possono essere considerate uno stratagemma drammaturgico per mitigare l’assenza di Amleto; sono invece una presenza ribelle in altre forme, una diversa risposta al disagio del mondo, seppur consapevole della propria vanità. L’azione sulla scena può trattenere il respiro per un attimo, per il tempo della festa evocata, ma non può riparare le macerie della storia. E’ solo un battito di ciglia. La macchina della storia si rimette in marcia travolgendo tutti, colpevoli e innocenti.  La morte di Ofelia è la tragica, sofferta risposta al più straziante dubbio di Amleto.

Pieter Bruegel - "Ognuno", 1558

Fig. 5 – Pieter Bruegel – “Ognuno”, 1558

 

NOTE
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[1] Ho tenuto presenti l’edizione di Kathleen O. Irace, The first quarto of Hamlet, Cambridge, University Press, 1998 e quella italiana a cura di Alessandro Serpieri, Il primo Amleto, Venezia, Marsilio, 1997 I riferimenti testuali rimandano all’edizione della Irace. Nel I in-quarto alcuni nomi sono diversi da quelli che compaiono nel II in-quarto e nell’in-folio: Polonio (Polonius) è Corambis, Gertrude è Gertred, Laerte (Laertes) è Learte (Leartes), Rosencratz è Rossencraft, Guildestern è Gilderstone, Fortinbras è Fortenbrasse.

[2]  M.Foucault, Storia della follia nell’età classica, Milano, Rizzoli, 1976.

[3]Diverse, ma coerenti alla stessa visione, le morti del Re  e di Learte durante il duello finale, che era stato preparato come trappola per Amleto. E’ lo stesso Learte in fin di vita ad ammetterlo: “Proprio come un imbecille stupidamente ucciso dalla mia stessa arma” (XVII, 83-82). Amleto costringe il Re a bere la bevanda avvelenata destinata a lui, dopo che Learte gli ha confessato che la madre è morta per aver bevuto, per sbaglio, quella stessa pozione.

[4]I due rituali appaiono in tale forma solo nel I in-quarto, mentre nel II (Q2 – 1604) e nell’In-folio  (1623), le entrate di Ofelia rimangono due, ma le stanze cantate sono mescolate, senza che sia possibile distinguere il compianto per Corambis dal rito primaverile. E’ questa una delle ragioni per cui il I in-quarto, solitamente trascurato, debba essere  letto nella sua autonomia. Sulla questione delle tre versioni dell’Amleto e sul valore del I in-quarto, considerato un bad-quarto, v. l’Introduzione di Alessandro Serpieri a Il primo Amleto, cit., pp.9-43 (Il mistero del primo Amleto). Serpieri ha anche pubblicato il testo del II in-quarto in W.Shakespeare, Amleto, Venezia, Marsilio, 1997, con le varianti dell’In-folio.

[5] “a true love” compare anche nella Ballata The Elfin knight, riportata e commentata da S.Baldi in Ballate popolari d’Inghilterra e di Scozia, Firenze, Sansoni, 1946, pp. 210 e 286.

[6]  Cesare Ripa, Iconologia ovvero descritione dell’immagini universali cavate dall’antichità e da altri luoghi, Roma 1593, voce Esilio (ed. moderna: Milano, TEA, 1992).

[7] Cfr. S.Baldi, Ballate popolari…cit. e Studi sulla poesia popolare d’Inghilterra e di Scozia, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1949.

[8] Se ne sono trovate testimonianza in Europa e Asia fin dal 2000 a.C., v. E.Barber – J. Wauland, The mummies of Urumchi, New York, Norton, 1999.

[9] “Let me have lenght and breadth enough, with a green sod under my head” (“[Che la mia fossa] sia lunga e larga abbastanza, con una zolla d’erba sotto la mia testa”), Robin Hood’Death, 120b. 18.1-2.

[10] S.M.Blackmore, The riddles of Hamlet, Boston 1917.

[11] Il rovesciamento richiama l’innovativa rilettura della festa de Le Jeu  de la Feuillée di Adam de la Halle (Paris, Champions, 1976); per l’edizione italiana v. Adam de la Halle, Teatro, a cura di Rosanna Brusegan, Venezia, Marsilio, 2004.

[12]  Da Chi l’ha detto? Tesoro di citazioni italiane e straniere di origine letteraria e storica, a cura di G.Fumagalli, Milano, Hoepli, 1921, p.241.

[13] Sulla canzone di Robin v. H.Morris, Ophelia’s Bonny Sweet Robin, “Publications of the Modern Language Association”, LXXIII, 1958, pp. 601-603.

[14] Da Drammi pre-shakespeariani, a cura di B.Cellini, Napoli, ESI, 1958, p. 693.

[15] Esordio di maniera di molte ballate dedicate a storie di donne, come The lament of the border widow (I.1-2), in cui una vedova, travestitasi da uomo entra come ciambellano alla corte del re e infine, rivelatasi, lo sposa. Di questo tema si ricorderà Shakespeare ne  La dodicesima notte.

[16] J.G.Frazer, Il ramo d’oro, Torino, Boringhieri, 1965, I,p.195.

[17] G.Barbadoro-R.Nattero. Le feste dei Celti, Aosta, Keltia, 2012,pp.59-60.

[18] Cesare Ripa, Iconologia…,cit, voce Pazzia.

[19] Amleto, II in-quarto (II,2,204). Nel I in-quarto una considerazione simile c’è da parte di Learte, durante la distribuzione dei fiori: “Una bella lezione, pur nella pazzia” (XIII, 79).

[20] Di queste feste primaverili, diffuse in tutta Europa, abbiamo un esempio in Adam de la Halle, La commedia di Robin e Marion, in Teatro, cit., pp.151-260. Il testo è stato ritrovato in un manoscritto risalente al XIII-XIV sec. In Inghilterra la coppia è formata da Robin Hood e da Maid Marian.

[21]La sovrapposizione delle due figure deriva dalla comune finalità dei maggi e di San Valentino di celebrare gli amori, anche con chiari riferimenti sessuali e osceni doppi sensi.

[22] Su Amleto come Nessuno v. il mio: Amleto-Nessuno. Le visioni del sottotesto, in “Critica d’Arte”, n.6, giugno 2000, pp.52-60. Il Nessuno nella cultura del tempo si contrappone alla figura di Ognuno, l’uomo tutto proteso alla ricerca dei beni materiali e affatto cieco rispetto al proprio destino e alle finalità alte della vita. Il Nessuno, spesso ritratto col dito sulla bocca per invitare al silenzio, non partecipa del delirio del mondo, ma lo contempla rifiutando ogni azione. E’  maschera che appare frequentemente nelle illustrazioni del Mondo alla rovescia del folklore europeo. Cfr. Rubina Giorgi, Un tema della “Follia”: il “Nessuno”, in L’Umanesimo e “la Follia”, Roma, Abete,1971, pp.65-88 e Figure di Nessuno, New York – Milano, Out of London Press, 1977.

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FernandoFernando Mastropasqua è nato nel 1941 a Chiusi in provincia di Siena. Ha insegnato Storia del teatro e dello spettacolo nelle Università di Pisa, Trento e Torino. Tra le sue pubblicazioni: Le feste della rivoluzione francese, Milano, Mursia, 1976; Metamorfosi del teatro, Napoli, ESI, 1998; In cammino verso Amleto (Craig e Shakespeare), Pisa, BFS, 2000; Teatro provincia dell’uomo, Livorno, Frediani, 2004; La scena rituale, Roma, Carocci, 2007. In collaborazione con Ferdinando Falossi ha pubblicato L’incanto della maschera e La poesia della maschera, Torino, Prinp, 2014 e 2015. Collabora alla rivista “Critica d’Arte”.

 

 

 

Falossi/Mastropasqua “L’incanto della maschera”

 

Maschera di Capo dei Servi della Commedia Antica, da statuetta fittile del Museo del Louvre. (Lino stuccato e pelliccia di capra) - di F. Falossi

Maschera di Capo dei Servi della Commedia Antica, da statuetta fittile del Museo del Louvre. (Lino stuccato e pelliccia di capra) – di F. Falossi

 

È uscito da pochi mesi, per le Edizioni PRINP,  il libro “L’incanto della maschera – origini e forme di una testa vuota” di Ferdinando Falossi e Fernando Mastropasqua.
Si tratta di uno studio importantissimo sul dispositivo maschera che parte dai greci per arrivare ai giorni nostri. Ci sembra di poter dire (limitatamente alle nostre conoscenze e ricerche) che un lavoro così articolato appaia per la prima volta in una pubblicazione italiana. In effetti l’opera completa sarà composta da due volumi e questo è quanto ci riferisce telegraficamente Falossi sulle due parti: “Se il primo volume considera l’incanto della maschera, cioè la sua origine legata alla magia, al rito, al mondo degli antenati e degli spiriti, insomma, il suo essere icona indossabile, il secondo volume parlerà della poetica della maschera, ovvero del suo diventare linguaggio espressivo in teatro, e in particolare in quel teatro che si situa alle origini della nostra cultura, cioè il teatro greco. Infatti  esaminerò la maschera nelle sue differenziazioni e nella sua evoluzione all’interno dei tre generi teatrali, Tragedia, Commedia Antica, Commedia  Nuova e Dramma Satiresco. Un intero, consistente capitolo sarà dedicato alla ricostruzione, per quanto possibile filologica, della maschera greca, con analisi dei colori, dei materiali e degli stucchi.”

Maschera della strega Rangda. Spettacolo Barong di Batubulan (Bali, Indonesia)

Maschera della strega Rangda. Spettacolo Barong di Batubulan (Bali, Indonesia)

Dovunque l'apparire della maschera desta inquietudine e contrastanti sensi di smarrimento, stupore, ammirazione. È l'incanto che i Greci chiamavano thauma, parola che caratterizzava l'inesprimibile, l'inaudito, parola che annunciava un luogo di meraviglie, fascinazione, malìa, e anche, per il Padre Gregorio di Nazianzo, il compiersi del miracolo cristiano. La maschera è il simbolo più antico e universale della coscienza della finitezza umana ('meglio non essere nati'), per questo essa ricopre di una corteccia 'immortale' il corpo deperibile dell'uomo, come le maschere funerarie d'oro celavano il volto in decomposizione del morto; ed è anche la prima perfetta realizzazione di 'macchina del tempo': infilarsi dentro una maschera trascende l'io, lo spazio e il tempo. Tra le infinite varietà di forme sono qui raccolti alcuni dei suoi molti incanti: dai culti arcaici e dai riti ancestrali fino ai miti della cultura classica, dalle epifanie nel folklore europeo fino ai fantasmi circensi. La perdita di aura nella società moderna costringe la maschera in spazi inusuali e a profonde degenerazioni. Tuttavia la sua presenza in molti carnevali risparmiati dalla mercificazione turistica e nella pratica scenica più attenta alla sperimentazione, sulle orme di Craig, Mejerchold, Brecht, non meno che nelle piazze 'indignate' o nelle foreste del Chiapas insorgente, rende ancora attuale l'invocazione del Mercuzio shakespeariano: "Datemi una custodia per metterci dentro la faccia! Una faccia su una faccia".


RICONGIUNGIMENTI – L’incanto della maschera

di Walt G. Catalano

 

La fissità viene definita come “l’essere fisso, fermo, detto soprattutto dello sguardo o del pensiero” (Vocabolario Treccani). Un’espressione facciale che esprime uno stato d’animo, nell’attimo in cui si palesa va ad amplificarsi in quella che viene recepita dall’altro come primordio assoluto della comunicazione. Comunicare attraverso le espressioni del volto è un atto antecedente al linguaggio, che rappresenta nella sua mutevolezza la modalità più semplice di recepire l’altro da sé.
Facciamo questa premessa perché “L’incanto della maschera, origini e forme di una testa vuota” è un libro che parla di comunicazione e della potenza dell’espressività umana. La maschera nella sua fissità stabilisce ed evoca le espressioni somatiche contribuendo non solo a rendere il volto qualcos’altro, ma mutando radicalmente il comportamento di chi la indossa riconducendolo in un mondo di antiche pulsioni (come nel caso dello sciamano), o calandolo in un personaggio diverso dalla persona, come nel caso del lavoro attoriale. Questo accade in una relazione di scambio biunivoco tra faccia/corpo (modalità) e maschera, tale che la staticità della maschera viene ad assumere tutte le valenze dell’umana o ferina fisionomia. In un’unica sagoma un universo di opposti che scaturiscono in lampi di puro inconscio da decriptare. L’indossamento della maschera ricongiunge il corpo alla mente attraverso meccanismi subcoscienti che mutano il modo di rapportarsi con se stessi e con gli interlocutori, creando una serie di risposte che non sarebbero possibili nel contesto della normale comunicazione fra individui.  
Il libro si presenta come un un caldo ed avvolgente piano-sequenza sokuroviano (ci riferiamo in particolare al film”Arca russa”): dalla copertina in cui dallo sfondo nero spiccano i colori della Maschera Kwakiutl (Becco ritorto del cielo), il lettore viene proiettato in un percorso che attraversa le epoche e le culture, risvegliando  strati profondi della memoria collettiva.
Il primo capitolo affronta lo sciamanesimo: lo sciamano che diviene guaritore, ponte con il regno dei morti ed essenziale contatto con la cosmogonia. Il viaggio continua nel XII secolo a.C. con la maschera gorgonica Greca, madre di tutte le maschere che difende dagli inferi e impedisce la contaminazione fra i due mondi: “L’altro mondo resiste così alla profanazione dell’umano con la riaffermazione del non umano come valore primordiale”. Nel terzo capitolo ci troviamo nella Grecia del V secolo a.C. con l’immaginario dionisiaco e la figura del satiro che coincide con “l’immagine che l’uomo greco si prefigura della pienezza dell’essere, concretizzata in un’epoca metastorica in cui vita, natura, divinità, non sono in lotta fra loro”, dunque il satiro è uomo dionisiaco ma lo è anche lo spettatore. Il Pittore di Pronomos è un punto fondamentale del quarto capitolo, dove viene esaminata la ceramica del grande cratere a volute di Napoli, che vede i vari protagonisti interagire con diverse maschere. Il quinto capitolo è dedicato a un’analisi delle maschere da circo, circonferenza magica che rafforza i legami fra attori e spettatori, partendo dai greci per arrivare alla storia contemporanea. “Maschera e Tempo” chiude il volume partendo dall’analisi del rito dei danzatori Warimé, della popolazione venezuelana Piaroa, per suggerire come la maschera riesca a sottrarre l’essere dal tempo.

Questa opera rappresenta molto di più di un semplice manuale, possiamo ricavare in ogni pagina tracce di etologia, antropologia, analisi dei miti e elementi di natura psicodinamica come il transfert, la deindividuazione e l’inconscio collettivo, anche se non vuole essere un libro di ascendenza junghiana, né tantomeno si vogliono affrontare direttamente elementi di natura psicodinamica che comunque ogni lettore potrà decidere o meno di prendere in considerazione. E’ uno spazio nel quale possiamo muoverci liberamente, senza vincoli di inizio e fine scoprendo poi alla conclusione, come nel film di Sokurov, che viviamo sospesi su un mare sconfinato di simboli. Ci troviamo dunque di fronte all’opera più completa sulla storia della maschera nel teatro, almeno per quanto riguarda la letteratura in Italia e ricordiamo che il progetto comprenderà due volumi, il secondo dei quali uscirà nel corso dell’anno a venire.

 

 

INTERVISTA a Ferdinando Falossi
a cura di Walt G. Catalano

 

1)    “L’incanto della maschera – origini e forme di una testa vuota”: una gestazione durata dieci anni, ci può parlare della genesi e delle esigenze che hanno portato a questa opera?
In effetti la gestazione è durata anche il doppio. L’incontro con la maschera, poi, risale addirittura al 1976, in particolare a un seminario sulla maschera della Commedia dell’Arte condotto da Donato Sartori e organizzato dal Centro per la Sperimentazione e la Ricerca Teatrale di Pontedera. Erano gli anni in cui Pontedera era davvero l’ombelico del mondo per i giovani che approdavano al teatro e volevano andare oltre quello che chiamavamo “tradizione”, o “accademia”. Io, che venivo da una realtà di paese della provincia di Livorno, ho potuto “vedere”, ma anche lavorare, avere contatto, non solo con colossi come Jerzy Grotowski, Eugenio Barba, o Julian Beck, ma anche e soprattutto con una galassia di realtà che si situavano ai confini del teatro inteso in maniera tradizionale, realtà che avevano ancora i piedi nel rito, nella religione, nel folclore, mentre la testa si affacciava su un  linguaggio laico e teatrale. Teatro eskimese, balinese, greco-turco, teatro di figura, con nomi come Obrazov, Cuticchio, i Colla, Otello Sarzi, tutto passava per Pontedera, che in quel momento storico rappresentava la rottura dei confini e delle barriere tra i generi e le famiglie del teatro. Sartori tenne il suo corso al centro di un convegno universitario sulla Commedia dell’Arte tra i relatori c’era il prof. Mastropasqua. In quella occasione ho capito, o meglio, ho intuito senza capirlo, che la Maschera è il Teatro, e ho seguito Sartori quando mi ha proposto di lavorare con lui nella sua casa-laboratorio nella campagna di Abano Terme. Lavorare in quella casa non significava solo produrre maschere di cuoio, ma anche studiare, accumulare materiali e conoscenze, e, dopo anni di accumulo, mettere in ordine. Ma è stata quella intuizione: “la maschera è il teatro”, che si può leggere anche al contrario: “il teatro è la maschera”, condivisa fin dall’inizio con Fernando Mastropasqua, a far nascere l’esigenza di un’opera che conferisse a questo oggetto i connotati di un punto di vista attraverso il quale riesaminare tutti i princìpi del fare teatro. L’idea del libro è comunque sempre stata quella di un manuale-antologia di fonti destinato agli studenti, soprattutto a quelli non abituati a questo genere di argomenti.

2)    Durante la sua formazione Universitaria in Storia del teatro è stato seguito dal Prof. Fernando Mastropasqua con il quale ha conseguito la laurea; nei tempi successivi avete sviluppato aree di interesse diverse per quanto riguarda lo studio della maschera?Diverse non direi, anzi. Mastropasqua per me è stato ed è IL Maestro; le nostre aree di interesse sono sostanzialmente le stesse. Maggiori sono invece le sue capacità di spaziare in territori d’indagine che io forse non avrei affrontato spontaneamente, come il teatro di varietà, o il circo; anche se sono io, poi, ad aver lavorato, per esempio, con Zingaro, il circo-teatro di Bartabas. 

3)    Lei realizza anche manualmente delle maschere, qual è  la cosa più importante che insegna ai suoi allievi durante i laboratori sulla realizzazione della maschera?
Il messaggio più importante, quello alla cui comunicazione io tengo di più,  si può sintetizzare in questa frase: “non facciamo gli artisti”. La costruzione di una maschera è una fatica artigianale. Qui non si può dire “io lo vedo/sento così”, come fa l’artista. C’è da costruire l’immagine di uno spirito, o di un dio, o di un personaggio teatrale, che poi sono la stessa cosa, e bisogna stare attenti a quello che ci si mette dentro, perché lo spirito, o l’attore, che poi sono la stessa cosa, potrebbe non riconoscersi, e allora la maschera non funzionerebbe. “Funziona” o “non funziona” corrisponde oppure no, questi sono gli unici criteri di giudizio per la realizzazione di una maschera. Non “è bella” o “è brutta”. E soprattutto il mascheraio è un artigiano che umilmente si mette al servizio, dell’autore, poi del regista, poi dell’attore, che è l’utente finale dello strumento che si costruisce. Figuriamoci se in una prospettiva simile sono ammissibili le velleità narcisistico artistoidi new age che vanno di moda oggi.

4)    Come si relaziona con la sua doppia anima di artigiano e studioso quando realizza una nuova maschera? Nella fase della genesi si ispira a qualcosa di totalmente nuovo o a un concetto preesistente?  
Dopo un periodo passato sui libri ho sempre provato una sorta di insofferenza, la stessa che provo durante un laboratorio nel quale trascorro la giornata tra creta, gesso e colori.  Io penso che esista un sapere al quale si può accedere studiando libri e un altro che passa da quella conoscenza che viene dalle mani, dall’attraversare la materia. E’ per questo che i miei seminari sono stati sempre teorico-pratici. Se, studiando una maschera, si tenta anche di ricostruirla e ci si confronta con la concretezza della creta, della colla del colore, si finisce col conoscere molte più cose e col capire meglio quello che si sta studiando/facendo. Questa doppia anima è sempre stata molto presente in me, oggi, tuttavia, non vivo più tutto ciò come un conflitto. Penso anche che quello di separare saperi e dividere discipline sia uno degli errori tipici della nostra epoca. Leonardo costruiva e studiava, pensava e scolpiva, dipingeva, progettava e scriveva, componeva e suonava.

5)    Ci parli dell’invisibile legame fra carne e totem.
Immagino si riferica a qualcosa che riguarda la psicanalisi e questo mi rende difficile rispondere. Per gli Indiani che frequento io, i Kwakiutl della British Columbia, il totem è presenza assoluta e inviolabile, quindi è carne. Può essere creato ma mai restaurato. Non è un legame è un’identità.

6)    Prima Darwin e successivamente Paul Ekman si sono interessati allo studio delle emozioni constatando che il volto può esprimere fino a 10.000 microespressioni facciali, quanto incide questo aspetto nei suoi studi? 
Non incide per nulla. Per tirare in ballo in maniera molto grossolana un argomento che affronto nella seconda parte della ricerca, nel teatro della Grecia antica, il tramonto della maschera è avvenuto proprio quando, con Menandro, il personaggio ha perso il proprio carattere di icona, cioè di immagine emblematica, simbolica, per diventare entità espressiva ricca di sfaccettature e di sfumature, soggetta a cambiamenti di condotta. La maschera non serviva più, perché era costretta a rincorrere il volto sul terreno della mobilità laddove il suo specifico comunicativo è la rigidità. Quando la maschera vuole imitare la quantità di espressioni di cui è capace un volto, essa perde ogni ragione di esistere. E’ un po’ come vedere una competizione tra cinema e fotografia. Il primo non è superiore alla seconda perché descrive il movimento. Sono solo due linguaggi diversi che parlano all’anima in modo diverso.

Maschera Kwakwaka'wakw di Uccello Tuono (della famiglia Hunt). Museo Nazionale di Victoria (British Columbia, Canada)

Maschera Kwakwaka’wakw di Uccello Tuono (della famiglia Hunt). Museo Nazionale di Victoria (British Columbia, Canada)

7)    Le espressioni facciali false a differenza di quelle vere sono intenzionali e comportano l’innesco di una maschera, come si rapporta con questo aspetto nella vita di tutti i giorni? 
Esattamente come ci rapportiamo tutti con il falso che domina la nostra società, o meglio tutti quelli che il falso sono in grado di decifrarlo e smascherarlo; ma questo non riguarda né i miei studi né l’opera di cui stiamo parlando. Personalmente non amo il gioco di questo genere di maschere.

8)    Mischiamo gli elementi: cosa succederebbe se uno sciamano in piena trance conducesse un esorcismo?
Ci sono elementi che non si possono mischiare a rischio di fare critica tendenziosa, ci sono culture che non si possono, a capriccio, travasare da un alambicco all’altro. De Martino ci ha insegnato che l’attenzione al contesto e all’orizzonte categoriale di una cultura non sono degli optional per la comprensione dei fenomeni.

9)    Negli ultimi decenni le popolazioni nordiche si sono ricongiunte alla mitologia narrata nell’Edda, alle loro radici: questi temi verranno trattati in qualche modo nel secondo volume dell’opera? 
No. Se questa prima parte, dedicata alle origini rituali della maschera teatrale, riporta alcuni esempi tratti dall’antropologia, secondo me efficaci per la comprensione del linguaggio della maschera, la seconda parte sarà tutta dedicata all’evoluzione di questo oggetto nei tre generi del teatro greco, Tragedia, Commedia e Dramma Satiresco, e al rapporto tra la tecnologia costruttiva e la funzione espressiva della maschera.

 10)    Fumetto e cinema di genere: la maschera è stata una colonna portante di entrambi, pensiamo al capolavoro di Miller “Il Cavaliere Oscuro” o “Non aprite quella porta” di Tob Hooper, opere basate su concetti dinamici come il transfert e la de-individuazione, vorrei chiederle se, allo stato attuale c’è un abuso smodato del “sistema maschera”?
Sì, nel primo capitolo ho parlato di un impoverimento generale del significato della maschera, che oggi viene percepita per lo più come oggetto che serve a nascondere anziché a rivelare, mentre nel teatro antico o nel terreno antropologico la funzione rivelatrice è dominante. I casi che lei cita andrebbero analizzati in profondità e separatamente, perché, per esempio, il fatto che per un personaggio come Leatherface, l’autore preveda maschere differenziate, come la Maschera della Fanciulla Dolce o la Maschera della Rabbia o del Macellaio, è molto interessante perché fa pensare a una maniera “antica” di intendere la maschera.

11)    Ho avuto modo di vedere alcune delle maschere da lei realizzate: i segni del tempo, le rughe che segnano volti, il cui baricentro è spostato verso la follia. Sembra che il palesarsi della patologia sia un normale flusso vitale facendo, a mia sensibilità, emergere una dimensione antipsichiatrica. C’è un intento di questo tipo nella realizzazione di questa serie di  maschere? Oppure si tratta più semplicemente di una filiazione diretta della maschera silenica greca? 
Se ci riferiamo alle maschere dei servi della Commedia Antica, la filiazione diretta della maschera silenica è fuori di dubbio. Forse però posso fare un esempio utile a chiarire una trasformazione avvenuta già nell’antichità nella concezione della maschera. Sileno, e con lui i satiri, ha zigomi alti, naso rincagnato, narici dilatate, occhi vividi, ed è colorito in volto di un rosso acceso. In questi lineamenti è contenuta tutta la simbologia della bestia divina caprina legata all’ambiente dionisiaco: naso del demone caprino che respira a pieni polmoni, occhio pieno di vitalità animale, rosso del sangue, dell’amore, del sesso inneggiante alla vita. Ecco, con le Physiognomonikà, cioè con la scuola postaristotelica, questi, che erano simboli, diventano sintomi, affezioni fisiologiche di un tipo umano: quello del folle lussurioso. Il rosso è dovuto all’eccesso di circolazione sanguigna, e gli occhi spiritati diventano sintomo di sfacciataggine, così le narici dilatate, come quelle dei lussuriosi cervi, producono una sovrabbondanza di ossigenazione che induce alla sfrenatezza sessuale. E così via. È chiaro che al teatro interessa il primo approccio e non il secondo. Comunque, se dire che il folle ha più diritto di cittadinanza e viene meglio accolto nelle civiltà “antiche” contemporanee piuttosto che nella nostra è una posizione antipsichiatrica allora sì, ne sono convinto.

12)    Nei primi tre capitoli del libro (Il volo dello sciamano, I Gorgoni eroi e uomini qualunque: la maschera Greca, Il Dio della maschera: Dioniso e la metamorfosi) antropologia culturale, etologia e mito si intrecciano gli uni negli altri dando vita uno stimolante ribollire del subcosciente, che oggi la tassonomia specialistica ha troncato. È volontà di questo libro riportare il lettore in quell’antico magma? 
Più che riportare, “offrire” al lettore un’ombra di quella antica visione, perduta, che è totale e unitaria, e non conosce steccati fra un sapere e un altro, tra un pensiero e un altro, e fortunatamente ignora la tassonomia specialistica.

13)    Possiamo definire il teatro come un rito psicodinamico collettivo?
Niente affatto. Ma cosa sia definibile come teatro è questione tanto complessa da non potersi comprimere in una piccola risposta.

14) Metodo Stanislavskij: chi c’è dietro la maschera quando la maschera non c’è? 
Stanislavskij o non Stanislavskij, Goldoni o non Goldoni, la maschera c’è sempre. Non esiste teatro a volto nudo, perché anche il volto nudo è maschera, altrimenti il teatro non avrebbe forme. Il problema è affrontato nell’ultimo capitolo del libro.

Maschera di "S" per lo spettacolo "Essedice", di Sacchi di Sabbia, Falossi, Gipi. (Lino stuccato) - di F. Falossi

Maschera di “S” per lo spettacolo “Essedice”, di Sacchi di Sabbia, Falossi, Gipi. (Lino stuccato) – di F. Falossi

15) Ci racconti dello spettacolo teatrale “Essedice” del 2010 con Gipi e Sacchi di Sabbia, penso che sia stato emozionante entrare nell’intimità di un ricordo infantile, visto che lo spettacolo riguardava proprio la vita del padre del fumettista. Vorrei chiederle inoltre se Gipi le ha fornito indicazioni per la realizzazione delle maschere o ha lavorato in totale libertà? 
Prima di tutto devo dire che Essedice è stata un’esperienza magnifica. Ho conosciuto Sergio, il padre di Gipi, molti anni prima di conoscere il figlio. Negli anni dell’Università, quando volevo diventare un fotografo, mi aiutava bonariamente e mi lasciava andare nel suo magazzino a scovare pellicole e carte da stampa un po’ datate che poi mi regalava. Non c’è stato un problema di intimità, perché il feeling con Gipi e con Giovanni Guerrieri dei Sacchi di Sabbia è qualcosa che ci lega ancora. E poi quello era uno spettacolo “greco”: niente di psicologico, niente di psicoanalitico. Quello che si metteva in scena era una compresenza impossibile di vivi e di morti, resa possibile dalla maschera. Sul palco c’erano “S”, che non c’è più, Gipi bambino, che non c’è più, la giovane mamma di Gipi bambino, che non c’è più, e il Gipi attuale, che invece c’è, ma che, se vuole interagire con gli altri, deve indossare la maschera, pena l’impossibilità di comunicare. Tutto questo per opera di due extraterrestri di vonnegutiana memoria che hanno la bella idea di trasformare il corso lineare del tempo in un tempo circolare,(cioè nel tempo del teatro antico), un eterno presente, dove i morti tornano e con loro si può parlare. Per questo, quando ho costruito le maschere per lo spettacolo, ho voluto usare la tecnologia della maschera greca e le ho fatte di lino stuccato.
No, Gipi non è il tipo che fornisce indicazioni. Io volevo portare i suoi disegni nella terza dimensione. Non era difficile, perché il suo modo di concepire il disegno dei volti è basato sull’eliminazione dell’inessenziale. Non ci sono particolari realistici; non ci sono connotati fotografici o anagrafici. Insomma non ci sono ritratti, ma solo icone, come nella pittura bizantina. In un volto lui mette “gli” occhi, “il” naso, “la” bocca, e naturalmente “le” orecchie, quelle che fa solo lui. Poi c’è il connotato dell’età: più giovane, meno giovane, vecchio. E poi basta. Sono il contesto, l’azione e la parola che definiscono il personaggio. Un altro grosso punto d’incontro con la maschera greca. Sì, ho lavorato in totale libertà e in un clima di festa, viste le sue reazioni ogni volta che nasceva una nuova maschera. Poi le abbiamo colorate insieme.

16) La pregherei di togliersi la maschera e dirci la prima cosa che le viene in mente. 
Il mascheraio è la coscienza della maschera, per questo come lei è una testa vuota priva di cervello e di pensiero.

Tutte le foto sono di Ferdinando Falossi

Maschera di Dioniso, per Vittorio Gassman.(Lino stuccato e pelliccia di capra) - di F. Falossi

Maschera di Dioniso, per Vittorio Gassman.(Lino stuccato e pelliccia di capra) – di F. Falossi

 

Ferdinando Falossi, laureato in storia del teatro e dello spettacolo con una tesi sulla maschera greca, ha collaborato all’insegnamento di Storia del Teatro dell’Università di Pisa. Lavora oggi come operatore presso la Cooperativa CREA di Viareggio. Ha realizzato diversi “spettacoli” all’interno delle strutture per il disagio giovanile e le malattie mentali, e le ha documentate in video. Allievo di Donato Sartori è costruttore di maschere, sia in cuoio che in altri materiali, ha realizzato maschere per gli spettacoli teatrali di Zingaro e per il Re Lear del Footsbarn Travelling Theatre. Tra le sue pubblicazioni L’erma dal ventre rigonfio. Morfologia della maschera comica, a cura del Teatro Laboratorio diretto da Beatrice Pre- moli, Roma, ETL, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari, 1989 e Gorgòneion: la forma del- l’oxymoron in AA.VV., Maschera Labirinto, Roma, ETL, 1991. Tra i suoi video Totem, Viareggio, CREA, 2005, Cartamusica, Viareggio, CREA, 2013.

Fernando Mastropasqua, già professore di Storia del Teatro presso le Università di Pisa, Trento e Torino, si è occupato di feste, di maschere antiche, di carnevali, di regia. Le sue più recenti pubblicazioni sono: Komos, il riso di Dioniso: Maschera e Sapienza, Roma, ETL, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari, 1989; Metamorfosi del teatro, Napoli, ESI, 1998; In cammino verso Amleto (Craig e Shakespeare), Pisa, BFS, 2000; Teatro provincia dell’uomo, Livorno, Frediani, 2004; La scena rituale, Roma, Carocci, 2007; collabora alla rivista “Critica d’Arte”.