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ANTONIO SYXTY

THE FORTY YEARS LATER PROJECT, VOL. 1

 

Il booktrailer:

 

Antonio Syxty – The Forty Years Later Project, vol. 1

Formato: 18×28 cm
Pagine: 304 + 52
euro 27,00
a cura di Daniele Poletti
saggio critica: Marcello Sessa
[dia•foria, giugno 2025
collana: floema – esplorazioni della parola

 

 

Dal saggio di Marcello Sessa: Un calamaio di fotografie. Afasie ricettive a fronte di un regesto transtestuale siglato A.S.

 

Trovarsi – davvero? – di fronte a un massiccio segmento
del «Primo Famoso e Improbabile Archivio di Antonio
Syxty» è un’eventualità molto simile a quella in cui si
è sorpreso – per finta? – il narratore del capolavoro che
Jean Potocki ha redatto, con spasmodica incostanza, in
ben tre versioni (1794, 1804, 1810); è come incappare in
un manoscritto “trouvé” a Saragozza. Lo spiega bene il
personaggio che innesca la macchina romanzesca del
conte franco-polacco; straniato in terra straniera, è curiosissimo
di entrare in «une petite maisonnette assez
bien bâtie, que je crus d’abord n’avoir encore été visitée
par aucun Français»: «Seulement j’aperçus par terre,
dans un coin, plusieurs cahiers de papier écrits». L’Archivio
syxtyano, in prima battuta, richiede l’esame più prudente
possibile, e appare una potockiana “moltitudine di
quaderni di carta scritta”; la perizia letterale preventiva
garantisce referti successivi maggiormente articolati:
pare ovvio, ma sulla carta si possono scrivere moltissime
cose e in moltissimi modi.
Il soggetto che per avventura scorge – appercepisce: il francese tinge filosoficamente quel verbo di uso comune – un oggetto-testo siffatto comincia dal “grado zero” della scrittura (come inconsciamente fa Roland Barthes: «La langue est comme une Nature qui passe entièrement à travers la parole de l’écrivain, sans pourtant lui donner aucune forme, sans même la nourrir») e culmina, se ne approfondisce l’ispezione, con “la letteratura al secondo grado” (come consciamente fa Gérard Genette: «L’objet de la poétique […] n’est pas le texte, consideré dans sa singularité […], mais l’architexte, ou si l’on prefère l’architextualité du texte, […] “la littérature de la littérature”»): inaugura un viaggio dalle condizioni di esistenza dello scrittorio fino alle condizioni di possibilità del letterario. Compiere questo percorso richiede anzitutto l’elasticità semiotica necessaria per passare, sempre con lessico barthesiano, dalla «malinconia» alla «felicità» del segno; ovvero accorgersi della rigidità del codice e della “falsa coscienza” dell’istituzione letteraria che, artificiale per statuto, si vuole naturale in apparenza. L’emancipazione segnica – Giorgio Patrizi ha chiosato – «avviene ad un livello preciso del linguaggio. Non al livello della denotazione quanto a quello della connotazione»; sciolto il carattere castrante del testo, esso si spoglia nel nome del piacere e del desiderio, che per Barthes corrisponde a un libero «trascorrere dei significanti»: a un textum come texture del possibile. Il segno è felice, poiché massimamente gode di tutto ciò che plausibilmente può fare se  organizzato in scrittura desiderante, che «si sdoppia in una ricerca del desiderio nel momento in cui si scoprono le [sue] capacità di aderirvi». Acceso il suo polo “maniaco” a detrimento di quello “saturnino”, la testualità di Syxty si infuoca e si propaga dove meglio riesce, badando che non si calpestino nemmeno le sue ceneri; le sue unità sono «oscilloscopi» che si compiacciono del loro bipolarismo e che «misurano [l’]intelligenza con attrezzature avveniristiche». Nelle pagine che a queste si accompagnano, la “fase maniacale” impazza, nessun impulso è sublimato e le oscillazioni sono frenetiche, per il fatto che il testo che imbastiscono (de-codificato, de-connotato e sfrenatamente denotato) si incardina in «una rifondazione del linguaggio, insomma, proprio nel luogo e del momento della sua destrutturazione: una nuova comunicatività, nella non comunicazione». Il segno “depresso” è dall’autore subito agitato a suo piacimento e a suo piacere: «La vogliamo svelare questa frase? | T’insegnerò io a sfasciare la macchina da scrivere!». Dopo avere temperato il segno syxtyano (da freddo connotato di significati a caldo denotato di significanti), il soggetto che lo risquadra è obbligato a fare un doppio movimento; a scinderne la lettura per il momento in due binari, con una procedura analogica che consenta di percepirne la coalescenza già menzionata di scrittorio e di scritturale: requisito indispensabile al successivo orientamento nei texta (sono molteplici e sono incastrati) che il segnico compone. Il primo asse di questa dinamica è puntato all’indietro; Syxty impone di retrocedere alle origini del grafo: alle sue scaturigini essenziali più che alla sua causalità genetica. […]
Le figurazioni surrealiste di Max Ernst, così, sarebbero omologhe, nella loro composizione, a riflessioni sulle invarianti mitologiche di società in società; al contrario, invece, la loro retrospezione e retrocessione a un minimum figurativo per spalancare l’inconscio dovrebbe essere vista come una variante presente della figurazione archetipa, condotta con i rudimenti del mestiere faticosamente rintracciati “in levare”. Con intento affine Syxty consegna, esprimendosi, le ossa del linguaggio. Dopo alcune indicazioni di massima circa il suo Archivio, viene ammesso che «tutto comincia con una scritta», e che quella scritta manco è tracciata da chi scrive; viene documentato che è stata vista, fotografata e raccolta nel 1978; viene dichiarato che «per un caso della sorte è rimasto solo quel frammento strappato»: un frammento del raccoglitore che la conteneva. Cosa fare? Mostrarla «in una copia fotostatica in bianco e nero in modo che possiate essere testimoni di un fatto che è realmente accaduto», e cominciare – proprio da una déchirure testuale – a squadernare l’archiviato. L’impresa “texturale” di Syxty, che già in questa monade minuscola stratifica, moltiplica e perverte parecchi codici segnici – ma di questo si dirà meglio e a parte – si avvia accogliendo il linguaggio verbale al suo interno a patto che sia segno barthesianamente “caldo”: de-codificato. Grazie al primo spostamento posteriore, alla volta dello scrittorio, l’autore ammonisce che l’opera non sarà soltanto da leggere, da decodificare, e che le parole verranno trattate alla stregua di “scritte”: di scrizioni “incarnate”, di vive ritenzioni del gesto, della voce e del corpo di chi le ha emesse. Syxty compone quindi variazioni  primigenie sul gráphein.
Il secondo asse della dinamica di lettura sopra accennata è orientato, invece, in avanti. Se lo scrittorio si dà originariamente, lo scritturale amplia considerevolmente (e progressivamente) le proprie condizioni di possibilità; ne risulta che i segni “ben temperati”
si organizzano in pattern e che la scrittura viene destituita. Il verbale è detronizzato, e deve spartire lo spazio del testo con linguaggi altri: il visivo grafico, il visuale fotografico-indessicale, il gestuale e il sonoro. Questi ultimi sono interconnessi alla performance art e al teatro, praticati dall’eteronimo dell’estensore A.S., nel nome di una pessoana “pluralità” e su un binario non parallelo bensì tangente la fictio artistico-letteraria; anzi proprio come in Fernando Pessoa, egli deve appunto alla finzione la messa in opera concreta: «Io stesso non so se questo io, che vi espongo in questa serie di pagine che scorrono, esista realmente, oppure sia soltanto un concetto estetico e falso. Mi vivo esteticamente in un altro». Subentra addirittura la dimensione temporale, che la scrittura syxtyana manipola a piacimento e con inapparente metodo incrociando, in virtù di un’attrezzatura espressiva completa, referenze a una temporalità lato sensu “storica” e una temporalità nell’insieme “finzionale”. Paul Ricoeur – a cui spetta la paternità di questo schema – ha concluso che, in mezzo a tale incrocio, «bisogna allargare lo spazio di lettura aprendolo a ogni forma di grafia», se si vuole accedere alle problematicità teoriche del racconto che è “rifigurazione effettiva del tempo”».

 

 

COLLOQUIALE N. 20 (intervista ad Antonio Syxty)

 

Antonio Syxty nasce a Buenos Aires e vive a Milano, dove si dedica all’arte visiva, alla performance e alla regia. Ancora studente di liceo redige autonomamente una tesi sulle scritture visuali e d’avanguardia in Italia (1940-1974), preludio al suo percorso artistico.Dopo una formazione tra il 1975 e il 1976 negli Stati Uniti in Art and Drama e creative writing, torna in Italia e realizza numerose art-performance. Nel 1978 fonda Oh-ART!, manifesto concettuale, e crea l’Antonio Syxty Fan Club, progetto autobiografico volutamente fittizio. Partecipa a installazioni e performance in città italiane ed europee come Napoli, Roma, Bologna, Vienna e Londra. Alla fine degli anni ’70 si afferma come performer in gallerie e spazi underground, collaborando con figure di rilievo dell’arte, del design e della musica come Alessandro Mendini, Nanda Vigo, Franco Battiato, Ivan Fedele, Andrea Branzi, Mauro Staccioli, Cinzia Ruggeri, Elio Fiorucci, Krizia e altri. Negli anni ’80 espone opere su carta e tela nei circuiti artistici milanesi, con un linguaggio influenzato dall’ arte concettuale, comportamentale, con richiami alla body art. Forti sono le influenze di Marcel Duchamp, Vito Acconci, John Baldessari, Sol LeWitt, On Kawara, Allan Kaprow, Gina Pane. Parallelamente realizza scritture visive e intrattiene carteggi con Ugo Carrega, Arrigo Lora-Totino, Emilio Isgrò, Adriano Spatola, Nanni Balestrini, Edoardo Sanguineti, Antonio Porta. Il suo lavoro di scrittura rimane principalmente inedito con rare eccezioni. Negli anni ’90 si concentra sulla regia teatrale e multimediale, senza mai abbandonare l’arte visiva e la performance, considerandosi un regista di spazi e situazioni. Collabora con RAI e Mediaset per progetti di regia facendo cinema, televisione, pubblicità, moda, concerti, eventi live e installazioni. Attualmente è coordinatore artistico di MTM – Manifatture Teatrali Milanesi della Fondazione Palazzo Litta per le Arti e svolge attività di content creative su canali digitali.

antoniosyxty.com

 

 

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