## Ritorno su “spazio di destot” a cura di Simona Menicocci

 

Rendere produttivo il falso
appunti su spazio di destot

di Simona Menicocci

Non può esserci, né farsi, un discorso definitivo e definitorio su spazio di destot di Fabio Teti. Libro impossibile da etichettare o classificare, il cui senso – plurale, molteplice, opaco – sfugge, centrifuga, resiste a ogni tipo di irrigimentazione ermeneutica e provoca un dialogo/lettura ininterrotto, ma soprattutto infinibile. L’Ur-testo iniziale era infatti una raccolta di poesie d’amore che – resasi intollerabile all’occhio dell’autore sia per la sua natura privata, autoreferenziale e non ‘comune’, sia per l’autofiction di cui era intrisa – è stata distrutta, o meglio, decostruita attraverso due procedure che hanno scopi differenti. L’autore stesso spiega egregiamente i processi attuati:

«Le due parti, ‘disfazione’ e ‘diversione’ nascono dal corpo di un medesimo testo, ossia un libro di poesie che scrissi tra 2004 e 2005, e di cui ho patito negli anni successivi tutta la falsità immanente alla postura là assunta. Dunque ho distrutto il corpo testuale originario dandolo in pasto ad un software di cut-up, e ne ho rimontato (per modo di dire) i frammenti secondo una logica puramente intensiva, sicuramente inconscia. Fin qui ‘disfazione’. Tuttavia il regesto della distruzione continuava a non soddisfarmi: bisognava non soltanto distruggere il falso, bensì renderlo daccapo produttivo, generante, ma di una generazione che sapesse prescindere dalla messa in campo delle intenzionalità coscienti, dell’iperdeterminazione. Anche qui è occorso in mio aiuto un détournement, diciamo così, tecnologico: ho ripreso di nuovo il testo originale, ho eliminato ogni versura, e l’ho dato in pasto al google traduttore, riportando il tutto in italiano dopo diversi passaggi tra le lingue. Successivamente, ho lavorato su questo nuovo testo, su questa doppia alienazione dell’origine e delle intenzioni e falsità ad essa coestese, mettendomi a scrivere sopra e dentro e tra le frasi ottenute, cercando di lavorare lungo la linea di frizione fra inconscio tecnologico (quello della macchina, dei suoi errori di traduzione, dei suoi mostri sintattici, dei significanti aleatori prodotti dai suoi algoritmi) e inconscio umano, personale.»

Per la prima sezione del testo Teti sceglie uno storico metodo avanguardista di decostruzione testuale, utilizzando una delle tante macchine di cut-up disponibili nel web, a cui dare in pasto un materiale verbale per far detonare ciò che vi è nascosto all’interno, per poi assemblare i frantumi lavorando sul suono, sul ritmo, sugli accenti, sulle eco e sugli ego che questa frammentazione è in grado di attivare. La macchina, quindi, diventa una risorsa per uscire dal cerchio dell’io, per trasformare il cerchio in uno spazio n-dimensionale; diventa un dispositivo che permette l’autoestraneazione. Se frantumazione e sparizione dell’istanza discorsiva del soggetto possono essere solo artificiali, in questo lavoro si fondano sull’esigenza etica, sulla responsabilità, di complicare e problematizzare la natura monadica della coscienza trasformando un monologo intimo in flussi di coscienza interferiti, disturbati da discorsi/coscienze altre. Assistiamo così a una sorta di puntillismo informale dove il magma verbale è volto a mostrare, tra le altre cose, la condizione (patologica) del soggetto occidentale contemporaneo, privato e transindividuale, mettendo a lavoro una lingua schizofrenizzata, al cui interno inserire e far frizionare la Storia, privata e collettiva, data per frammenti, per scaglie semiche, creando uno strumento per accedere al rimosso dell’inconscio, privato e collettivo. Vi troviamo quindi un immaginario “senza io” come, secondo Lacan, avviene anche nel caso della schizofrenia. Il soggetto schizofrenico appare infatti «come un soggetto frammentato, senza forma, volatile, sparpagliato, dissociato perché la schizofrenia è essenzialmente un’esperienza di perdita e di frammentazione dell’identità, di disgregazione dell’immagine stessa del proprio del corpo, del corpo a pezzi (corp morcelée). […] Per lo schizofrenico il corpo, il proprio corpo, non sta insieme, ma tende a disgiungersi, a frammentarsi. Allora lo schizofrenico può inventare strategie differenti per tenere insieme un corpo che sfugge da tutte le parti.»[1]
Quello che vale per il corpo vale per il discorso, per la parola: «nella clinica della schizofrenia è difficile trovare un postulato fondamentale perché nell’esperienza schizofrenica niente è vissuto come stabile e sicuro. Non c’è alcuna esperienza della certezza se non relativa all’incontro con il reale che si dà nelle allucinazioni. […] L’allucinazione è la sola esperienza che il soggetto schizofrenico fa della certezza. Il contenuto delle allucinazioni è “certo” nonostante la sua bizzarria estrema».[2]


Il soggetto schizofrenico messo a lavoro in spazio di destot trasforma infatti i fenomeni e gli oggetti in allucinazioni proteiformi per mezzo di un rimaneggiamento schizofasico del linguaggio attraverso paragrammatismi (errori di concordanza), uso di parole idiosincrasiche, ripetizioni, improvvisi cambi di soggetto, perdita della connessione logica e dei nessi associativi fra le parole e le frasi, deragliamento del pensiero – in modo tale che le associazioni scorrano l’una dopo l’altra in relazione obliqua, o senza alcuna apparente relazione –, perdita di finalismo (cioè impossibilità di arrivare alla naturale conclusione di una concatenazione di pensieri), blocchi o intoppi della sintassi, agrammatismo (perdita di parti del discorso). Sia Freud che Lacan hanno osservato come il tratto clinico della schizofrenia risieda in un simbolico che diventa reale. L’esperienza della coazione ad allucinare condensa in sé quella primordiale del linguaggio come caos, nonché quella del corpo come esperienza dell’informe e quella della storia umana come orrore e delirio. È una specie di extraterritorialità in rapporto alla parola. Ma come sopperire all’assenza di unità per mantenere unito il corpo, il discorso? Con la paranoia, se è vero che «nella paranoia il centro è occupato dal senso e il delirio è semiotico perché tutto ha un senso».[3]

Il linguaggio, in spazio di destot, viene inteso e trattato (si pensi alla tetralogia di W.S. Burroughs) come la malattia ontologica del soggetto occidentale, ma Teti conviene che è solo attraverso di esso che può darsi un antidoto conoscitivo al male di cui esso è luogo e causa insieme (in vista, ad ogni modo, di «nessuna guarigione», come altrove si afferma). Il testo della prima sezione – dal titolo disfazione – con cui il lettore entra in contatto e in collisione è un testo scomposto, lussato, franto, poroso, interrotto, diffratto; una catena paronomastica, una slavina che rimastica e rumina ciò che è stato detto e scritto; un testo infittito da incisi e incidentali che, comunemente, sono sintatticamente liberi e indipendenti ma semanticamente pertinenti e introducono un nuovo punto di vista che inficia le relazioni logiche e crea piani prospettici differenti. La polifocalizzazione così ottenuta è lo strumento tramite cui Teti cerca di rifunzionalizzare uno spazio tradizionalmente monologico assimilando dentro l’io, dentro il discorso dell’io, una parola costitutivamente altrui, un brulichio verbale alieno e che tuttavia ci appartiene, proprio perché non è possibile possederlo e comprenderlo totalmente. Ciò che chiede/pretende questa scrittura è infatti di rinunciare a quanto anch’essa ha rinunciato: la pretesa/presunzione di onnicomprensione/onnispiegazione, di poter comunicare tutto, quando è semmai necessario non condividere il noto, l’esistente, bensì trasformarlo in problema, attraverso la messa in crisi di sé e della propria scrittura-logos in un discorso che non viene normotizzato e che approda, infine, a un probabilismo ontico e gnoseologico in cui le categorie di vero-falso vacillano, a una coincidentia oppositorum che si fonda su una logica eraclitea, antinomica, quantistica, anti-identitaria che decostruisce i principi di identità, di non contraddizione e del terzo escluso mostrandone la natura puramente formale. A partire da questa paleologica, la tortuosità, la parziale illeggibilità di spazio di destot riflettono l’oggetto del testo, dello sguardo del testo sul mondo, della domanda che il testo fa al mondo, all’altro. Il muro di testo è un muro fatto di porte, di buchi, di finestre, dove l’osmosi attuata tra la positività del mondo fisico e la negatività del mondo psicologico mostra una relazione Io-Mondo differente. La soggettività, così come la lingua, viene plasticamente manipolata e articolata con l’oggetto-mondo in una scultura verbale complessa che ne confonde i contorni/confini.

Nel pensiero di Teti la dispercezione è un fondamento estetico-antropologico, forma costitutiva dello stare al mondo e dell’esperire il mondo da parte dell’essere umano e strumento quanto mai fertile della scrittura. L’idea di una percezione compatta, coerente, totalizzante del mondo è un’illusione. Non può darsi infatti una percezione, non tanto pura del mondo, quanto priva di significato. Ogni oggetto, fenomeno, evento viene investito da un senso ulteriore che non gli è proprio, ché il mondo in sé non ha significato. Quindi ogni percezione è sempre già una dispercezione, un’alterazione, una deformazione di ciò che è. Se non bastasse questa costante antropologica a incrinare l’illusione fenomenologico-referenziale, vi si aggiunga il dato storico-sociale di una percezione compromessa dalla tecnica – perché ipermediata, iperstimolata e delocalizzata – e strumentalizzata dai sistemi di potere e di dominio. All’interno di un tale panorama l’esperienza non è più solamente discontinua, incomunicabile, ma vaporizzata. Così come il soggetto non è più solo poroso, lamellare, opaco, obliquo, ma definitivamente compromesso.

Nella seconda sezione – dal titolo diversione – Teti si serve del Google Traduttore, trattato come dispositivo di alterazione in cui abbandonare lo stesso materiale verbale di partenza per uscire questa volta dal cerchio della lingua madre, salvo ritornarvi dopo la traduzione, meccanica ed errata, in una serie di lingue straniere, ottenendo così un testo non frantumato, ma completamente alienato, nel quale far frizionare inconscio tecnologico e inconscio personale e storico. Questo metodo viene applicato perché l’io ha ed è una lingua, quindi non poteva bastare il cut-up per attuare una pratica di scrittura che tenta la strada della disalienazione linguistica (è bene sottolineare che la strada non è né una né solo questa: ci sono, già esistono, molti modi e scritture capaci di attivare processi di consapevolezza della natura ideologica e alienata del linguaggio, di riappropriazione e sovvertimento di ciò che, fuor di paradosso, è inappropriabile come il capitale comune della lingua. Ed è questo l’ethos che struttura e fonda tutte queste prassi discorsive, che ne determina ricerche, approcci, variazioni, procedure, protocolli).

spazio di destot enuncia e denuncia, proprio attraverso l’ostensione del fallimento etico delle politiche occidentali – delle conseguenze dei loro fini, mezzi, parole, discorsi, che ne rivelano il carattere specificamente antiumano e antisociale – il conseguente e parallelo fallimento avvenuto nelle coscienze, e relative percezioni, opinioni, che di quelle fanno parte e le cui genesi si profilano come una teratogenesi. Ma la denuncia non è esternalizzata, il discorso può esser vero in questa pratica di scrittura così complessa e così densa di pensiero sull’uomo, solo ed esclusivamente perché, allo stesso tempo, si autodenuncia, si autoaccusa, non si autoassolve indirettamente come tanta scrittura parenetica che dall’alto della sua superiorità morale giudica e condanna il mondo. Fabio Teti, in quanto coscienza, e dunque in quanto linguaggio, fa parte di quel mondo distrutto che distrugge e ne è consapevole, ne condivide la colpa e la condanna, il peso e l’impossibile redenzione. In quanto uomo è allo stesso livello del lettore, è complice assieme a lui di tutto l’orrore perpetrato. Proprio la scrittura permette di evitare il conseguente approdo nichilista di questo assunto: scrittura in quanto creazione, costruzione, trasformazione di qualcosa in altro da sé, perché al di là di ogni recupero nostalgico e nei fatti impossibile, altro può essere fatto in luogo di ciò che è andato perso e distrutto, ma solo a partire da una presa di coscienza e di responsabilità individuale, oltre che da uno sforzo ermeneutico critico.

«vita è il con», una delle frasi più memorabili di spazio di destot, ne sintetizza la tensione costruttiva su base relazionale, l’esigenza di un “internazionalismo umano” che sappia declinare l’io e il tu in un ‘noi’ che non si opponga a nessun ‘loro’. Anche perché l’identità non è qualcosa di naturale, nasce dal riconoscimento, dalla relazione con l’altro; il soggetto è generato dal e nel con, quindi è un fenomeno relazionale, sociale, politico. La filosofia del con è l’orizzonte da costruire perché, come la scrittura di Teti ci ricorda, l’io non è solo un altro, ma è soprattutto un noi. O per dirla con Bachtin: «la vita inizia solo là dove un’enunciazione s’incontra con un’altra enunciazione, cioè là dove inizia l’interazione verbale, anche se non è l’interazione verbale diretta, “faccia a faccia”, ma quella mediata, quella letteraria».[4] Partendo dal presupposto filosofico che «l’unità reale del linguaggio in quanto discorso non è infatti l’enunciazione monologica individuale e isolata, ma l’interazione di almeno due enunciazioni, cioè il dialogo»[5], Bachtin, in Esposizione del problema del discorso altrui (secondo capitolo del suo saggio Marxismo e filosofia del linguaggio), disamina le varie «forme usate per riportare la parola altrui, giacché in esse si riflettono le tendenze fondamentali e costanti della percezione attiva della parola altrui»[6], e distingue quindi tra stile lineare e stile pittoresco, in cui confluiscono i vari tipi di discorso diretto, discorso indiretto e discorso indiretto libero. Teti non si avvale però, come abbiamo visto, di forme canonizzate, modelli standardizzati per riportare o incorporare la parola altrui. spazio di destot si situa semmai in quell’area formalmente impredicibile che Bachtin definisce della “interferenza tra discorsi, tra parola propria e parola altrui”, ricordando appunto che «non è possibile assegnare al fenomeno dell’interferenza verbale tra discorsi un’espressione sintattica che sia, in un certo modo, particolare e stabile»[7]. Teti costruisce così un oggetto verbale non identificato in cui è però possibile esperire, tra le altre cose, la natura del linguaggio, sempre dialogico, sempre interferito, e in cui i confini tra io e altro, tra mondo e natura, tra senso e non senso, sono labili e impalpabili.

Accanto ai due dispositivi detonatori volti alla disappartenenza, che Teti impiega, e prima di essi, sussiste un’esperienza e una realtà, volendo chiasmatica, che ha medesime caratteristiche destabilizzanti: l’eros, l’inconscio, il desiderio, il rimosso. L’eros è un fenomeno di perdita di controllo dell’io, è una rottura dell’equilibrio e dell’ordine, è l’evento che permette al soggetto di conoscere ed esperire il suo inconscio. L’inconscio non è, come vorrebbe la concezione comune, né irrazionale, né istintuale, ha invece una logica sua propria, diversa, non egoica, è la manifestazione di una verità altra che abita il soggetto, è lo spazio del desiderio e del rimosso, senza esserne teatro bensì fabbrica, i cui processi sono processi linguistici. Se il desiderio è una potenza che oltrepassa il soggetto, una forza che è la sua trascendenza, il soggetto è assoggettatto al desiderio, ne è responsabile senza esserne il padrone, senza poterlo governare. A partire da questa consapevolezza, Teti usa i due dispositivi descritti, le due macchine, per mettere a lavoro il soggetto dell’inconscio personale e quell’inconscio tecnologico che, come ha ben analizzato Franco Vaccari, «è un organo della funzione simbolica, è una mediazione per cui un sensibile si riveste di senso».[8] La macchina, infatti, «viene innestata su un flusso (di materia, di energia, di informazioni) sul quale interviene effettuando una serie di operazioni predeterminate e inscritte in un codice bloccato. L’intervento sul flusso ha come conseguenza l’alterazione dei rapporti fra gli elementi che lo costituiscono. In questo senso si può continuare a parlare di produzione anche quando il risultato dell’azione della macchina è la distruzione. La distruzione è infatti una drastica alterazione dei rapporti esistenti nella direzione della loro massima semplificazione. […] In questa prospettiva si può capire quale sia la funzione delle macchine di distruzione che possono essere chiamate anche macchine di azzeramento dei codici: esse servono a dirottare flussi che altrimenti andrebbero ad alimentare macchine estranee: in sostanza essi creano riserve di flussi».[9]

Teti, distruggendo, produce quindi riserve di flussi su cui lavora, su cui interviene. «Ogni intervento soggettivo ottiene il risultato di surcodificare il testo. Ma dato che l’azione soggettiva è sempre solo parzialmente cosciente, il testo registra anche le determinazioni inconsce del soggetto».[10] Questo perché la macchina, lo strumento «deve essere visto come dotato di un’autonoma capacità di organizzazione del testo in forme che sono già strutturate simbolicamente, indipendentemente dall’intervento del soggetto».[11] Il significato, e cioè l’esperienza che è oggetto della rimozione, è quello già strutturato dell’inconscio tecnologico, ma «l’accettazione della casualità significa accettazione della presenza di informazioni involontarie, di informazioni parassite, di nicchie di mistero, dove il rapporto tra gli elementi è in gran parte ignoto, strutturato a nostra insaputa dal mezzo stesso che usiamo».[12]

Teti non utilizza immediatamente il materiale bruto ottenuto dai due dispositivi, ma lo rimaneggia, lo riusa, lo intensifica, attraverso riscrittura ritmica con particolare, ossessiva, attenzione ai segni sovrasegmentali e attraverso il montaggio. «In un certo senso, si potrebbe dire che il montaggio convenzionale si incarica di svolgere una critica radicale al cosiddetto principio di Frege, secondo il quale il significato di una espressione complessa è funzione del significato delle sue parti. Radicale al punto da pretendere il capovolgimento della formulazione: il significato di espressioni semplici compare ora come funzione dell’espressione complessa elaborata tramite il loro montaggio. […] Solo ciò che seguirà, solo l’ordine del montaggio darà retrospettivamente un senso compiuto alla straripante ambiguità (prossima a convertirsi in assenza di significato) […]. Selezionando e indirizzando i modi della percezione, il montaggio mette a punto una configurazione degli eventi a suo modo unica. Detto in altro modo, soltanto il risultato del montaggio può aspirare alla caratteristica irripetibilità di un’esperienza. Ma di che esperienza ci parla il montaggio? Apparentemente di una somma di esperienze date, scomposte nelle loro parti costituenti e poi riordinate. Ma solo apparentemente, giacché i segmenti artificiali su cui il montaggio interviene non rispecchiano una precedente esperienza diretta, figurando in ultima analisi come insignificanti unità sintattiche. A ben vedere, il montaggio, mentre sembra riportare l’esperienza trascorsa, ne costruisce una completamente nuova».[13]

Quale esperienza completamente nuova costruisce spazio di destot? Un’esperienza dalla doppia natura: decostruzione di un senso univoco, individuale, privato, e ricostruzione di un senso plurale, multifocale, pubblico, che resti in parte opaco, cioè divaricato e aperto a una molteplicità di percorsi e conclusioni, in cui il lettore è costretto ad aggiungere la propria grammatica, la propria sintassi, il proprio bagaglio culturale, psichico, emotivo, umano con cui eseguire, “suonare” lo spartito linguistico offerto all’esperienza. Il lettore diventa parte attiva del rimodellamento dei materiali linguistici, incitato a una riappropriazione degli stessi attraverso il loro uso.

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[1] Lamberto Donegà, Il soggetto psicanalitico, Lampi di Stampa, 2006, p. 41
[2] Ibid., p.42
[3] Ibid., p.41
[4] M. Bachtin e il suo circolo, Opere 1919-1930, Bompiani, Milano, 2014, p.1801
[5] Ibid., p.1727
[6] Ibid., p.1727
[7] Ibid., p.1779
[8] Franco Vaccari, Fotografia e inconscio tecnologico, Einaudi, Torino 2011, p.8
[9] Ibid., pp.7-8
[10] Ibid., p.14
[11] Ibid., pp.18-19
[12] Ibid., p.30
[13] Paolo Virno, Convenzione e materialismo, Roma, DeriveApprodi, 2011, p.51-52

 

 

Simona Menicocci (1985) ha pubblicato per le edizioni de La Camera Verde Incidenti e provvisori (2012) e Posture Delay (2013); alcuni testi dal progetto Saturazioni nel volume antologico di scritture sperimentali Ex.It – Materiali fuori contesto (Tielleci, Colorno, 2013); il testo italo-francese Il mare è pieno di pesci – La mer est pleine de poissons per la prima serie dei Fogli bilingue Benway Series (Tielleci, Colorno, 2014); Manuale di ingegneria domestica per la collana Chapbooks (Milano, Arcipelago Edizioni, 2015); glossopetrae / tonguestones per la collana syn (Roma, IkonaLiber, 2017).Suoi testi sono apparsi in riviste, lit-blogs e web-zines tra cui «L’Ulisse», «Nazione Indiana», «alfabeta2», «Il caffè letterario». Collabora al collettivo «eexxiitt.blogspot.com». Dal 2013 la sua ricerca si è estesa ai linguaggi dell’arte video, fotografica e installativa. Nel 2014 è stata tra i curatori della rassegna di arte e scrittura sperimentali Ex.it – Materiali fuori contesto (Albinea, RE) e ha partecipato alla rassegna Generazione y – poesia italiana ultima presso il Museo Maxxi di Roma. Nel 2015, presso l’Unione Culturale Franco Antonicelli di Torino, ha partecipato al progetto La descrizione del mondo, a cura di Andrea Inglese, con l’installazione Hiro (anamorfosi è un avverbio di modo) ideata assieme a Fabio Teti, con il quale ha anche curato un ciclo di laboratori di scritture ‘divergenti’ dal titolo prove d’ascolto, presso il WSP photography di Roma.

 

Fabio Teti è nato a Castel di Sangro (AQ) il 17/12/1985. Vive e lavora a Roma, dove nel 2012 si è laureato in Lettere moderne con una tesi sulla poesia di Giuliano Mesa. È stato redattore di «gammm.org» e «puntocritico.eu»; collabora, dalla fondazione, alle attività di «eexxiitt.blogspot.com».Suoi testi sono comparsi in diverse riviste, lit-blogs e web-zines tra cui «Semicerchio», «Nazione indiana», «L’Ulisse», «Allegoria», «alfabeta2», «l’immaginazione». In traduzione inglese, è presente sul «Journal of Italian Translation» (2012) e nell’antologia online «FreeVerse – Contemporary Italian Poetry» (2013); in traduzione franscese, in «Nioques» (2015). Nel 2013 ha pubblicato, all’interno del volume antologicoEx.It. 2013. Materiali fuori contesto (Tielleci, Colorno), le prose di sotto peggiori paragrafi e, per La Camera Verde di Roma, b t w b h (frasi per la redistribuzione del sensibile), uno dei cui testi è stato esposto, nel maggio 2014, al MACRO di Roma, nell’ambito della mostra collettiva se il dubbio nello spazio è dello spazio, a cura di Nemanja Cvijanović e Maria Adele Del Vecchio.

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